Donne e teologia non sono una contraddizione nel mondo musulmano. Sono sempre esistite, infatti, le muhadithat, ovvero le esperte conoscitrici degli hadith del Profeta, le quali molto spesso si dedicavano anche all’insegnamento religioso. Secondo le fonti storiche queste donne studiavano con gli uomini e anche a loro impartivano il sapere già tra il Trecento e il Quattrocento. Non vi era, da questo punto di vista, alcun tipo di discriminazione evidente sebbene, di fatto, la storia dell’interpretazione religiosa nel mondo musulmano conti più esegeti che esegete. L’Ottocento e il Novecento sono stati, per i Paesi arabi e musulmani, secoli di cambiamento politico, sociale e culturale. Il ruolo della donna è stato ripensato, reinterpretato alla luce dell’emancipazione e dei diritti umani. Ciò non significa certo che il percorso sia stato privo di ostacoli o che sia terminato; la condizione della donna rimane ancora oggi difficile in alcuni luoghi, un fertile terreno di dibattito anche politico nel quale è tuttora udibile l’eco degli accesi scontri del passato. Eppure ci sono stati, negli ultimi due secoli, molti cambiamenti positivi, come il sempre maggior interesse delle donne nei confronti dell’esegesi religiosa, gli scritti che hanno lasciato al mondo, le loro idee e opinioni decise e illuminanti.
Una delle più famose esegete musulmane è, senza dubbio, la pakistana Riffat Hassan, nata a Lahore nel 1943, in una famiglia benestante e colta.
Suo nonno, Hakim Ahmad Shuja (1893-1969), fu scrittore, poeta e mistico. Riffat, dunque, crebbe in una famiglia in cui era forte il sentimento religioso, sospesa fra tradizione e modernità, i testi sacri accanto a quelli profani. Perfino il carattere dei suoi genitori ricalcava questa sorta di dicotomia: il padre di Riffat aveva una visione del mondo pervicacemente attaccata alla tradizione, mentre l’atteggiamento materno era l’esatto opposto. La giovane Riffat crebbe tra questi due poli opposti, aspirando alla libertà e all’indipendenza. Dapprima studiò in una scuola missionaria anglicana, poi si trasferì in Inghilterra dove completò la preparazione in filosofia e in inglese. |
Oggi Riffat Hassan insegna alla University of Louisville, in Kentucky e le sue tesi non solo hanno fatto il giro del mondo, ma rappresentano una pietra miliare della teologia femminista islamica. L’Islam non è una religione “dalla parte degli uomini”, né discriminatoria nei confronti delle donne, secondo la studiosa. Il problema dei diritti negati, soprattutto quelli femminili, nasce da determinate condizioni storiche e culturali. La religione islamica, dunque, così come il Corano, non propugnano certo la disuguaglianza o la supremazia di pochi su molti, o degli uomini sulle donne, al contrario. Il Libro Sacro non dovrebbe, di conseguenza, essere interpretato in maniera rigida, fissa, statica. La parola è dinamica poiché può avere diversi significati, diverse sfumature interpretative che derivano dal contesto storico e sociale in cui essa viene pronunciata o scritta. Per questo motivo il Corano va letto alla luce dell’epoca in cui è stato concepito.
A tal proposito Riffat Hassan pone l’accento su un punto importantissimo e ancora oggi dibattuto: l’inferiorità della donna nei confronti dell’uomo, la diversità dei generi che, quasi automaticamente, sfocia nella disparità dei diritti fondamentali, assegnando alla parte maschile del mondo la supremazia su ogni cosa.
Il racconto della nascita dell’umanità, nel Corano, non reca alcun indizio, nascosto o palese, di tale superiorità. Uomini e donne sono stati creati da Allah, possiedono il soffio vitale e, in qualità di credenti, sono uguali innanzi a Lui. La diversità biologica, spiega la Hassan, non è e non può divenire il pretesto per giustificare la tesi dell’inferiorità femminile e neppure la presuppone; tali differenze fisiche, infatti, sono ricollegabili ai ruoli che l’uomo e la donna assumono nella procreazione e, successivamente, nel percorso di crescita dei figli. Il padre deve sostenere la famiglia e non solo economicamente; la madre mette al mondo e alleva i figli, secondo il Corano, ma in questa suddivisione dei compiti non si può evincere alcuna superiorità di un genitore sull’altro. Riffat Hassan spiega, invece, che entrambi i coniugi hanno ruoli essenziali nella costruzione del nucleo familiare e, di conseguenza, della società stessa. Il fatto che la donna partorisca e accudisca dei figli e l’uomo provveda a loro non lo pone automaticamente su un piedistallo e non gli dà il diritto di decidere della vita e dei diritti delle donne. Tale ripartizioni dei ruoli non va intesa in maniera monolitica e immutabile. Parlando di procreazione la Hassan si sofferma su altri due temi scottanti: l’aborto e la contraccezione.
Nel Corano non si fa esplicito riferimento alla contraccezione, però la teologa, dopo un attento lavoro sulle fonti religiose islamiche, è arrivata a sostenere che l’Islam non vieti il controllo delle nascite e che, anzi, questo rappresenti un diritto della donna il cui corpo non può essere considerato una proprietà maschile.
Per tali ragioni sia l’aborto che la contraccezione sono permessi dalla religione, ma sulla questione dell’interruzione di gravidanza c’è qualcosa in più da dire: i dotti musulmani non sono unanimemente d’accordo sui limiti temporali in cui sarebbe lecito intervenire per porre fine alla gestazione. Tutto ruota intorno al momento in cui avverrebbe l’infusione dell’anima nel feto. Secondo Riffat Hassan è possibile praticare l’aborto entro e non oltre i primi centoventi giorni di gravidanza, poiché la studiosa ritiene che in questo periodo l’anima non abiti ancora il feto. Parlare di aborto nel mondo musulmano non è così facile, soprattutto tenendo conto del fatto che le legislazioni delle diverse nazioni arabe e islamiche in merito non sono affatto permissive, eccezion fatta per i casi in cui l’incolumità della madre è a rischio.
Non solo: il controllo delle nascite è un argomento che va a toccare la colonna portante della religione musulmana, ovvero la famiglia e il matrimonio. Non si concepisce la nascita della prima se non all’interno del secondo; aborto e contraccezione andrebbero, dunque, a intaccare un modello di vita e di società ritenuto inviolabile. Si pensi alla difficile situazione delle ragazze madri nel mondo islamico, ma anche al ruolo e all’impatto della sessualità nelle società moderne: si tratta di questioni molto complesse, che fanno leva su antiche tradizioni, su concetti (e preconcetti) che resistono al tempo e ai cambiamenti come, ad esempio, l’onore.
A tal proposito Riffat Hassan ha perfino fondato un’associazione che si occupa di difendere le vittime del delitto d’onore in Pakistan. Dichiarare lecito l’aborto e la contraccezione, considerando quanto sia limitato il raggio d’azione consentito dalle leggi di molti Paesi islamici, è un grande passo avanti, un modo di pensare controcorrente, una vera e propria ribellione a ciò che è sempre stato considerato perfetto e, quindi, immutabile. Una ribellione, quella di Riffat Hassan, che affonda le radici nello studio, nell’ermeneutica, nella teologia, nella filosofia, nel ragionamento, nell’intelligenza e nella comprensione della relatività del mondo.