Non sono trascorsi ancora cinque anni dalla più incredibile trasformazione che il Museo Egizio abbia mai vissuto nel corso della sua lunga storia, che già è pronto a ripensare e riproporre in una nuova veste le sale che quella storia avvincente raccontavano, accogliendo e informando il visitatore prima di iniziare la lunga salita verso la collezione vera e propria.
Le foto che corredano questo articolo dovrebbero dar conto dell’ottimo lavoro svolto dal team dell’Egizio, invogliando – spero – chi non ha mai visitato il museo a provvedere e chi l’ha già visitato a programmare un nuovo giro tra le sue sale, dedicando un’attenzione particolare a quelle nuove.
Non indugerò quindi sulla descrizione delle cinque sale che sono state aperte, non vi parlerò delle pareti tappezzate di informazioni al pari di una tomba egizia, dell’apporto multimediale discreto che non prevale sul contesto e non prevede effetti speciali.
Non indugerò neppure, anche se non vorrei scrivere d’altro, sulla nuova e geniale sistemazione dello splendido papiro su cui è stato vergato, da un’antica mano esperta, il Libro dei Morti di Iuefankh, che ora può essere apprezzato non solo perché è oggettivamente bello, ma perché il suo contenuto e la sua storia sono raccontati e quindi accessibili a tutti.
Chi visiterà il Museo Egizio potrà cogliere questi aspetti semplicemente percorrendo le nuove sale, che sono state realizzate impegnando sia fisicamente che economicamente energie interne al museo stesso, grazie al coordinamento di Beppe Moiso, Tommaso Montonati e, relativamente al papiro di Iuefankh, di Susanne Töpfer.
Quello che invece vorrei raccontare, perché non traspare dalla semplice osservazione di un percorso espositivo, è il carburante che accende e spinge in avanti un motore complesso e articolato come quello di un grande museo, specie in un periodo in cui sui social appaiono troppo spesso i “numeri” e troppo poco spesso i “fatti”.
In una fase storica dove le mostre temporanee si muovono alla velocità della luce e invadono gli spazi museali mettendosi in dialogo – talvolta un po’ confuso – con le collezioni permanenti, ripensare il proprio allestimento e fare ricerca all’interno della propria collezione diventa quasi una coraggiosa azione controcorrente.
Eppure, è proprio lì che dovrebbe insistere un museo, nel ricercare al suo interno nuove storie da raccontare, nuovi percorsi per i suoi reperti facendo ricerca. Ricerca, da circum e poi circare, il movimento quasi circolare che si fa nel tentativo di ritrovare un oggetto smarrito. Dunque, un movimento che avvolge e che ci pone nella posizione privilegiata di chi può avere più punti di vista, perché un reperto non ha nulla di statico e nulla di definitivo. Capire questo significa al contempo tutelare e valorizzare, perché – come in più occasioni ha affermato il direttore Christian Greco – non esiste una così marcata dicotomia tra questi due importanti aspetti che riguardano da vicino gli antichi manufatti.
La parola chiave dunque diventa “cura”, da cui deriva anche la funzione dei curatori che operano all’interno di un museo. Avere cura di una collezione significa tutelarla e valorizzarla in un unico percorso progettuale, senza per questo disconoscere le diverse fasi e le diverse professionalità che caratterizzano gli aspetti più tecnici del percorso stesso.
Anche la storia delle collezioni, il racconto di come si sono formate, delle persone che vi hanno preso parte è un aspetto che va “curato” alla stregua di un reperto. Anche in questi casi si “scava” e il materiale trovato va tutelato e valorizzato, rendendolo fruibile al pubblico perché utile alla comprensione della collezione stessa e per provare a dare risposte alle domande che può suscitare. Nel caso del Museo Egizio i racconti sono avvincenti e si intrecciano con la storia del Paese prima ancora che di paese unitario si possa realmente parlare, con i primi “reperti egizi” che arrivano a Torino già a partire dal XV secolo.
Quattrocento anni di storia da raccontare, di persone da far conoscere, di oggetti che arrivano dopo complesse trattative superando mari e monti, che vengono censiti e descritti senza saper interpretare i segni che vi sono incisi sopra, che ancora non sono stati decifrati.
In parte era già stato fatto e poteva rimanere così, ma un ente che fa della ricerca uno dei motivi che giustifica la propria esistenza non si ferma di fronte al “già fatto” e continua a circare descrivendo il percorso di un cerchio per individuare nuovi punti di vista di uno stesso aspetto, per proporre ai visitatori una collezione in continuo mutamento, che si aggiorna e che ha sempre qualcosa di nuovo da dire.
È un modo di pensare. È una scelta precisa. È una vocazione.