Dopo anni dalla sua scoperta, un gruppo di ricercatori del Consorcio Ciudad Monumental de Mérida, dell’Università di Granada (UGR) e dell’Istituto dei Beni Culturali di Spagna ha condotto uno studio su un contenitore per il trucco di epoca romana trovato in Spagna, risalente per la precisione al I secolo d.C.

Sezioni della capasanta con cosmetico dell’antica capitale Augusta Emerita (ph. Consorcio Ciudad Monumental de Mérida_Saguntum).

La scoperta di questo contenitore, infatti, non è proprio recente, risale al 2000, a quando, durante uno scavo effettuato presso un complesso funerario nell’antica capitale della Lusitania, Augusta Emerita (l’attuale Merida), la “scatolina” è stata individuata dagli archeologi in un deposito di resti umani cremati. Faceva parte di un corredo funerario insieme ad altri oggetti trovati in loco, come tazze di ceramica, bicchieri, fusi in osso, una scatola contenente ossa ed altro ancora. Già a suo tempo, e senza conoscerne il contenuto, il contenitore per il trucco era stato ritenuto l’oggetto più significativo dell’intero corredo proprio per la sua unicità.

La trousse per il trucco consiste in una conchiglia della specie pecten maximus, comunemente conosciuta come “capasanta”.  La conchiglia, di circa 11 cm di diametro, era stata trovata ancora chiusa e in buono stato di conservazione (si può notare solo un leggero deterioramento dovuto all’usura nel tempo), con le due valve unite da una cerniera. Su ognuna delle due valve erano stati praticati due forellini gemelli dove una volta passava un filo metallico (probabilmente in argento, visto che ne è stato trovato un piccolo frammento all’interno della conchiglia) che collegava entrambi i pezzi e assicurava che il suo contenuto non andasse perduto. La valva piatta era servita come coperchio di quella che può essere considerata una scatola, mentre quella convessa doveva accogliere il prodotto ivi custodito.

Una volta aperto il guscio e ripulito dai sedimenti che si erano depositati nel tempo, è subito saltata alla vista una pallina oblunga di appena 1,2 e 0,9 cm: un conglomerato polveroso che si è subito distinto per il suo cromatismo rosato. Nelle argille erano bloccati anche diversi grani arrotondati di dimensioni millimetriche di un materiale molto morbido e untuoso di colore rosa brillante con coloranti magenta, che divennero ben presto obiettivo preferenziale delle analisi eseguite. I ricercatori hanno subito ipotizzato, e poi confermato, che si trattava di un residuo di un prodotto cosmetico, così iniziarono a documentare e analizzare i resti anche per comprendere dalla sua composizione se si trattava di un prodotto locale o, al contrario, di un preparato arrivato da chissà dove.

Dettagli delle diverse frazioni granulometriche dei sedimenti trovati all’interno della capasanta e dei grani cosmetici più grandi (ph. Marras, Arteaga y Navarro, IPCE, Saguntum)

Lo studio ha rivelato che il composto rosato era formato da una sostanza “glitterata”[1] dal colore e dalle proprietà molto simili al “rose madder” – aggiunto per donare al prodotto la colorazione rosa – e da un composto astringente (l’allume freddo) usato come agente fissativo. Ma qualcosa non quadrava: il “rose madder” è un pigmento vegetale ottenuto dalla pianta conosciuta come rubia tinctorum (chiamata così in quanto dalle sue radici i tintori estraevano una particolare sfumatura di rosso) e venne prodotto industrialmente dal XIX secolo attraverso una modifica del processo di estrazione che utilizzava sostanze chimiche non disponibili in tempi antichi; e l’intenso color rosa del pigmento contrastava con la classica colorazione rossa o rosso-arancione che solitamente si otteneva da questa pianta prima dell’introduzione delle sostanze chimiche di cui sopra. Dopo diversi esami, lo studio ha dimostrato che è possibile ottenere una pasta ricca di glitter dalle radici di rubia tinctorum e che il cosmetico e la sua colorazione furono ottenuti da un particolare controllo del metodo di produzione, utilizzando una tecnica davvero insolita per quel periodo.

La ricerca conferma inoltre che la formula utilizzata per la preparazione di questo composto ha molte caratteristiche comuni con i risultati ottenuti dalle analisi effettuate a Saragozza su altri prodotti cosmetici, quindi si può affermare che non si trattava di un prodotto “esotico”.

L’utilizzo di conchiglie come contenitore per cosmetici è una pratica che risale a migliaia di anni fa ed è comune a molte civiltà. Uno degli esempi più antichi giunti fino a noi è rappresentato da una serie di conchiglie piccolissime proveniente dalla città sumera di Ur e datato al 2500 a.C. circa.

Nel 1200 a.C. circa, come testimonia il beauty box di Tutu (sacerdotessa di Amon e moglie di Ani, lo scriba reale di Tebe famoso per il celebre papiro contenete una delle versioni più complete del Libro dei Morti), vediamo mutare il supporto conchifero che d’ora in avanti sarà un contenitore di ceramica o alabastro dalle forme malacologiche (Virgili 1989: 74), cambiamento attuato forse per la necessità di avere un oggetto di maggiore capienza e robustezza.

A Roma, in località Grottarossa, in una tomba di una bambina del II secolo d.C. sono state trovate due valve in alabastro unite da un filo d’oro, quando nel mondo romano erano molto comuni esemplari prodotti in osso; di questi ultimi, nella stessa Merida ne sono stati documentati parecchi. Quello di Grottarossa era di certo un vero prodotto d’élite vista la presenza dell’oro e considerando il costo davvero esorbitante dell’alabastro, prezzo dovuto alla sua difficile reperibilità in quanto proveniva quasi esclusivamente dalle cave egiziane di Naukratis. Il fatto che i contenitori in conchiglia fossero economicamente più accessibili dell’alabastro ha fatto sì che le scatoline ricavate dalle conchiglie fossero ampiamente utilizzate per questi scopi fino al periodo tardo-repubblicano e primo-imperiale, dove iniziarono a diffondersi porta-unguenti in vetro e ceramica, riducendo al minimo la presenza di altri tipi di contenitori.

Questi supporti conchiferi, principalmente destinati a contenere ombretti e fard, erano già comuni nel periodo greco, periodo durante il quale, proprio per la forma, erano state associate loro particolari pratiche e attribuite determinate simbologie ben più profonde della pura decorazione del corpo stesso: le conchiglie avevano un forte valore simbolico legato al mondo delle donne. Non c’è alcun dubbio che questo tipo di forme applicate alla cosmesi fossero associate alla sessualità e alla sensualità dei tempi antichi; l’uso del trucco, in combinazione con l’acconciatura, era associato al mondo dell’erotismo.

L’uso di questi contenitori con forma malacologica e il sesso della donna hanno suggerito un gioco metaforico sessuale sin dalla preistoria. La conchiglia, per la sua morfologia con due valve, ha ampi parallelismi con la forma del sesso femminile. Inoltre, vi è una miriade di passaggi mitologici in cui il guscio acquisisce un forte significato con i cicli riproduttivi. Allo stesso modo, l’uso di questi contenitori risiede anche nella diffusa convinzione che il sesso della donna fosse spiacevole e che il trucco potesse aiutare a mitigare tale repulsione.

La capasanta veniva preferita alle altre conchiglie per la sua particolare morfologia, infatti la pecten maximus presenta una serie di vantaggi funzionali che consistono nell’avere una parte concava dove procedere con lo scioglimento e la preparazione dei cosmetici e una parte piatta che funge da chiusura.

Nella sepoltura analizzata non è stato trovato alcun cofanetto che noi oggi chiameremo beauty case: una scatola di legno decorata con scomparti interni in cui riporre spatole, cucchiai, pinzette, pettini, nonché diversi prodotti cosmetici; cosa che invece è accaduta ritrovando il corredo della tomba di Crepereia Tryphaena (famosa per la celebra bambola in avorio) o in quella della Dama di Callatis[2].

Il cofanetto di Crepereia Tryphaena. (ph. Centrale di Montemartini)
I cofanetti in legno de la Dama di Callatis (Mangalia, Romania), seconda metà II secolo d.C. (ph. De Nuccio 1990, 67 fig. 44_via fastionline.org)
Flaconi in vetro con residui di sostanze dal corredo della Dama di Callatis, II sec. d.C. (cofanetto A). (ph. il capoluogo.it)

Sebbene l’uso dei cosmetici nell’antichità non si limitasse esclusivamente al mondo delle donne, in assenza di efficaci studi antropologici che consentano di definire se l’inumazione appartenesse o meno ad una donna, ci sono diversi elementi del corredo che possono confermare che si trattava di una persona di sesso femminile. Innanzitutto la scatola cosmetica, non solo per la sua funzionalità ma per la sua morfologia malacologica; in secondo luogo, la presenza di numerose bottigliette di unguenti e profumi; ed infine la presenza di alcuni pezzi di un astuccio per aghi e bottoni chiaramente legata alle attività di taglio e cucito, mansione sicuramente femminile. Oltre ad essere certi sul sesso, il team di studiosi non ha dubbi neppure sul ceto sociale e le possibilità economiche della defunta: al pari della struttura funeraria, nel corredo non è stato individuato alcun elemento sontuoso.

 

Source: Università di Granada

La capasanta con residui di cosmetico del I secolo d.C. trovata nell’antica capitale della Lusitania, Augusta Emerita, ora Merida (ph. University of Granada)

[1] Il composto presenta un’elevata percentuale di una sostanza luccicosa, in un primo momento si era pensato a glitter e/o pseudopurpurina.

[2] Nell’intatto e ricco corredo della Dama di Callatis (antica colonia greca, l’attuale città rumena di Mangalia) furono trovati due cofanetti di legno levigato, denominati A e B. Nel contenitore A, diviso in sei scomparti, erano conservati quattro flaconi in vetro soffiato. Dall’analisi dei residui trovati si è compreso che i flaconi contenevano rispettivamente una maschera di bellezza tipo “terra di Selina”, polvere bianco-cenere tipo fondotinta, polvere nera per le ciglia e il contorno occhi, e una polvere rosa-intenso per ravvivare la colorazione del viso. Insieme ai flaconi: un ago crinale, una placca di ardesia, uno specchietto di piombo e una pisside di legno.

Nel cofanetto B erano contenuti un’altra pisside di legno con due denti della defunta, una fuseruola, un portapenne vuoto e tre flaconi di vetro.

Il resto del corredo era formato da oggetti legati alla vita quotidiana, in particolar modo legati alla bellezza: gioielli, specchi, aghi crinali in osso, un’altra pisside di legno, un pettine, un set da trucco, cucchiai di legno e osso, calzature, una lunga verga di legno (forse un bastone su cui poggiarsi vista l’osteoporosi individuata nei resti ossei della donna) e due monete di bronzo.

Advertisement
Articolo precedenteLo scriba nell’Antico Egitto
Prossimo articoloNon solo leoni al Colosseo
Tiziana Giuliani

Egittofila, sin dall’infanzia appassionata di Antico Egitto, collabora con l’associazione Egittologia.net dal 2010. Ha contribuito alla realizzazione di EM-Egittologia.net Magazine (rinominato poi MediterraneoAntico) seguendone la pubblicazione già dai primi numeri e ricoprendo in seguito anche il ruolo di coordinatrice editoriale. Dal 2018 è capo redattrice di MediterraneoAntico.

Organizza conferenze ed eventi legati al mondo degli Egizi, nonché approfondimenti didattici nelle scuole di primo grado. Ha visitato decine di volte la terra dei faraoni dove svolge ricerche personali; ha scritto centinaia di articoli per la ns. redazione, alcuni dei quali pubblicati anche da altre riviste (cartacee e digitali) di archeologia e cultura generale. Dall’estate del 2017 collabora con lo scrittore Alberto Siliotti nella realizzazione dei suoi libri sull’antico Egitto.

Appassionata di fotografia, insegna ginnastica artistica ed ha una spiccata predisposizione per le arti in genere.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here