(Foto 1) Il tempio di Nettuno visto da nord-est. © Marco Vasile.

(1) In un certo senso (come vedremo) Friedrich Nietzsche lo aveva intuito. Per lungo tempo la “severa” perfezione del tempio di Nettuno a Paestum (foto 1) aveva fatto dimenticare il suo passato. Ma ora il passato più immemorabile della sua costruzione è affiorato, strappato via dall’oscurità. Lo ha fatto – avvalendosi della collaborazione di altri esperti e dell’utilizzo di precedenti studi ed osservazioni – Dieter Mertens, il grande studioso dei templi greco-occidentali, impegnato nella ricerca sul tempio di Nettuno dal 1977.

Annunciata da due articoli editi nel corso del 2019, che pubblicano i testi di precedenti comunicazioni a convegni, è attesa l’edizione della monografia del tempio di Nettuno, che andrà a completare la trilogia dedicata ai templi di Poseidonia (Krauss 1959 per il tempio di Athena; Mertens 1993 per la Basilica). Certo, ogni risultato scientifico rimane un’ipotesi smentibile, e forse è destinato a restare un enigma il nome della divinità a cui il tempio “di Nettuno” era intitolato. Ma la sua genesi costruttiva sembra ora definitivamente tracciata nelle sue linee cruciali. Il tempio di Nettuno è un tempio profondamente ripensato.

(Foto 2) Il colonnato meridionale orientato verso il monte conico. © Marco Vasile.

(2) Questo solenne edificio sacro di V sec. a.C domina da due millenni e mezzo la veduta del santuario meridionale. È orientato verso est, dove si ergono i monti che delimitano da quel lato la piana del fiume Sele; come suggestivamente notato da Vincent Scully (1979, p. 59), uno di questi, di forma fortemente conica, sembra essere la direttrice principale dell’orientamento (foto 2). Affiancato alla Basilica (il tempio arcaico di Hera), alla quale è praticamente allineato sul lato orientale, la sorpassa per lunghezza verso occidente, in direzione del mare. Il suo corpo architettonico spinge all’estremo le caratteristiche essenziali di «compiutezza, costanza e geometricità» del tempio dorico, come dice Max Raphael (1930, p. 41), lo storico dell’arte marxista che visitò Paestum poco prima del 1930.

(Foto 3) La fronte ovest al tramonto. © Marco Vasile.

(3) La conclusione cui è giunto Mertens indica che la costruzione del tempio di Nettuno, con il suo poderoso impianto di 6×14 colonne in un travertino di colore dorato (foto 3), sfruttò dalle fondazioni fino al primo scalone il basamento in pietra calcarea grigia di un predecessore tardo-arcaico (fine VI sec. a.C.) di cui non venne mai realizzato l’elevato, e che avrebbe dovuto dispiegare 8 colonne sulle fronti, come nel grande tempio di Hera presso il santuario alla foce del Sele, e addirittura 19 sui fianchi, una in più della vicina Basilica. Un tempio, dunque, dal disegno completamente differente da quello attuale, e che Mertens ha potuto “dedurre” dalla diversità del materiale costruttivo e dalle misure dei blocchi componenti il primo scalone (foto 4).

(Foto 4) Particolare del basamento in pietra grigia, fronte est. © Marco Vasile.

Ma non è tutto. Quando la costruzione del nuovo tempio 6×14 era già in fase esecutiva, un cambio di progetto alterò in modo sorprendente le fondamentali caratteristiche dimensionali e di simmetria della struttura e costrinse al riadattamento di materiali litici già realizzati in conformità al progetto abbandonato. Le accurate ispezioni di Mertens hanno individuato numerosi segni deliberatamente incisi dai costruttori sullo stilobate: è l’“impronta” dell’ultimo disegno, che non è compatibile con quello deducibile dai materiali riadattati (foto 5). Probabilmente la monografia chiarirà anche il rapporto cronologico in cui stanno il tempio e l’altare greco. Azzardiamo: forse una grave crisi progettuale si era verificata nel cantiere, che fece correre al tempio il pericolo di non venire alla luce.

(Foto 5) Il “segno” di una scanalatura inciso sullo stilobate. © Marco Vasile.

In verità questo secondo momento della vicenda costruttiva del tempio permane in una parziale oscurità, perché non può al momento essere escluso che questi materiali “difformi” e riadattati presenti nel tempio di Nettuno (principalmente, come vedremo, i blocchi degli architravi del fianco nord) derivino dal «riuso di gran parte di un tempio (o forse due) precedente» (MERTENS 2019b, p. 197). D’altra parte, lo stesso Mertens in passato non aveva rifiutato la postulazione di un predecessore, al quale attribuire i materiali riadattati (MERTENS 2006, p. 291). Mertens propende ora per l’ipotesi del mutamento di disegno: mentre la costruzione del tempio 6×14 era già nella fase esecutiva, venne deciso di abbandonare il disegno, fondato sull’adozione di interassi uniformi (così come nel già esistente tempio di Athena), a favore di un nuovo disegno contemplante l’attuale disuniformità degli intercolumni (più stretti sulle fronti; più larghi, di 2,5 cm, sui fianchi). Fu dunque necessario riadattare gli elementi nel frattempo già realizzati in conformità al primo disegno del tempio.

Ma indipendentemente dalla risoluzione di questa biforcazione interpretativa, è oramai chiaro che il tempio di Nettuno affonda le sue radici in una storia di ripensamenti e decisioni, che divarica lo spazio di tempo della sua costruzione. Il mondo in cui questa complessa vicenda costruttiva si era svolta è andato via – non udiamo il vociare delle maestranze e le fitte discussioni pratico-teoriche che Dieter Mertens immagina debbano essere avvenute tra gli architetti nel cantiere, né vediamo il basamento in pietra grigia giacere nel santuario meridionale, forse per lunghi anni, senza colonnati, prima che vi fosse avviata sopra la costruzione, in travertino dorato, del nuovo tempio secondo lo schema 6×14 che nel periodo protoclassico (480-450 a.C.) si stava diffondendo in alcune colonie occidentali.

Forse sul cantiere del tempio si riversarono i nuovi principi architettonici che in quegli anni stavano guidando la costruzione del tempio di Zeus ad Olympia (ultimata nel 457 a.C.), l’autentico “campione” dell’ordine dorico? Del capolavoro olimpico, il tempio di Nettuno condivide – caso unico in tutto il mondo greco-occidentale – la cella attraversata da due colonnati. Ma le argomentazioni di Mertens lasciano tuttora irrisolto il problema, da cui potrebbe dipendere per lo meno la precisa datazione del tempio di Nettuno (foto 6). Tuttavia una chiara immagine del passato è stata conquistata. Un passato di cui, forse, ad un certo punto la comunità di Poseidonia non conservò più la memoria.

(Foto 6) Il podio del tempio di Zeus ad Olympia. © Marco Vasile.

La conclusione raggiunta da Mertens rappresenta un duro colpo per le visioni più ingenue, che cadono nell’inganno del capolavoro “perfetto” e percepiscono il tempio come un’opera sorta dal terreno in un colpo unico. Il senso di questa specifica conclusione combacia con una osservazione di carattere generale, che si ispira proprio al tempio di Nettuno, formulata da uno dei rari pensatori che hanno parlato di Paestum senza averla mai visitata: Friedrich Nietzsche. Non ci sono certezze in merito, ma probabilmente aveva sentito parlare dei templi di Paestum da Jacob Burckhardt, il grande storico che durante il suo viaggio in Italia fu al cospetto del tempio di Nettuno (descrivendone l’esperienza nel Cicerone; prima edizione nel 1855). Nel volume I di Umano, troppo umano Nietzsche scrive (1878, par. 145): «Davanti a tutto ciò che è perfetto noi siamo avvezzi a trascurare il problema del suo divenire […].

La scienza dell’arte deve, come ben si capisce, confutare nel modo più deciso questa illusione e indicare le conclusioni errate e i vizi dell’intelletto a causa dei quali esso cade nelle reti dell’artista» (par. 145). È questo il concetto, che egli vuole esemplificare nel celebre brano in cui parla del «tempio greco […] di Paestum», cioè del tempio di Nettuno, paragonandolo alla abitazione costruita nel corso di un mattino da un dio. La grande arte, ci insegna Nietzsche, deve produrre l’illusione della miracolosa istantaneità del sorgere dell’opera. Deve cioè, in sostanza, tagliare via il rapporto dell’opera con il suo divenire, da cui l’opera inevitabilmente scaturisce. L’opera nasce nascondendo il proprio passato. Essa deve farlo dimenticare. E in effetti le cose, per il tempio di Nettuno, stanno proprio così: la sua sacrale magnificenza, il senso di assoluta  compiutezza e di armoniosa perfezione formale che le sue architetture sprigionano nello spazio, ci fanno trascurare il problema del suo divenire (foto 7).

(Foto 7) Vista al tramonto del tempio da sud-ovest. © Marco Vasile.

Certo, chi ha condotto visite guidate al tempio di Nettuno sa molto bene che una delle domande più gettonate suona così: come hanno fatto i Greci a costruirlo? Eppure questa  domanda mente. Essa rimane interamente suggestionata dall’essere del tempio, e dunque dominata dalla incredulità per il suo essere divenuto – proprio, cioè, da quel sentimento che la grande arte, come dice Nietzsche, deve ingannevolmente suscitare e mantenere nell’animo di chi ne fa esperienza.

(4) Il travaglio del tempio di Nettuno è stato particolarmente doloroso. Mertens riesce a ricostruirlo con estrema precisione, anche se alcuni aspetti persistono in una intricata problematicità (foto 8). In effetti da molto tempo nella comunità scientifica gravava un pesante “sospetto” nei confronti del tempio di Nettuno, alimentato dalle osservazioni di macroscopiche irregolarità accumulatesi a partire dalla fine dell’Ottocento. Non ci riferiamo alla convessità dello stilobate e ad altre curvature, una caratteristica di numerosi templi greci, ma, innanzitutto, alla differente spaziatura con cui sono disposte le colonne esterne lungo le fronti e i fianchi; e al modo in cui l’ordine dei colonnati, nell’alternanza di “pieni” e “vuoti”, si coordina – o meglio: non si coordina affatto – con il sovrastante dispiegamento di triglifi e metope nel fregio dorico. I due aspetti sono strettamente connessi.

(Foto 8) Dieter Mertens durante la conferenza sulle “provocatorie novità dal tempio di Nettuno” alla Pontificia Accademia Romana di Archeologia, 29.01.2018. © Marco Vasile.

Quanto al primo punto, le colonne dei due fianchi del tempio di Nettuno, pur essendo leggermente meno spesse di quelle delle fronti, deludono la ragionevole aspettativa che le vorrebbe più ravvicinate: esse sono infatti più distanti l’una dall’altra, visto che l’interasse, sul lato lungo, è maggiore di circa 2,5 cm rispetto a quello misurabile sui lati brevi. Quanto al secondo aspetto, il fregio dorico, nell’alternanza di triglifi e metope, dovrebbe replicare il più fedelmente possibile il ritmo realizzato dalla sequenza di colonne sottostante. Perché ciò accada, la disposizione dei triglifi deve coordinarsi con quella delle colonne, in modo che essi si allineino con gli assi delle colonne. Sui blocchi dell’architrave, che funge da mediatore tra il colonnato e il fregio, le regulae (i listelli posizionati sotto ciascun triglifo) e le guttae (i caratteristici elementi di forma tronco-conica che pendono sotto i triglifi) marcano la trasmissione dell’ordine che deve investire l’intero edificio dorico in senso verticale. Ma nel tempio di Nettuno, come osservato da molto tempo, il coordinamento verticale del fregio con il colonnato è assente, in un modo così clamoroso da suggerire la deliberata intenzionalità della sua mancanza: «il fregio si stende sui lati in modo del tutto indipendente dal colonnato, in ritmo sciolto, secondo modalità quasi analoghe a quelle delle trabeazioni arcaiche del VI secolo a.C.» (MERTENS 2006, p. 290).

La dissoluzione del vincolo verticale costituisce davvero una prepotente anomalia, che, non appena fu osservata, aveva cominciato a mettere in crisi la comprensione dell’essenza progettuale dell’intera struttura. L’osservatore più attento può scorgere anche ad occhio nudo come i triglifi siano disallineati rispetto alle pertinenti colonne. Il fregio è, rispetto agli assi delle colonne, come “slittato”. Ma per capire che “qualcosa” non quadra nell’allineamento tra la trabeazione e i colonnati basta porsi davanti alla fronte orientale (quella di accesso) e gettare lo sguardo in direzione dell’angolo meridionale: il terzo triglifo, invece di essere in asse con il giunto tra i due architravi, è vistosamente spostato alla sua destra (foto 9).

(Foto 9) Particolare della fronte est. La freccia indica il triglifo disallineato rispetto al giunto. © Marco Vasile.

Proprio il coordinamento verticale tra colonnato e fregio è il campo di azione in cui l’architetto dorico viene duramente messo alla prova dal famigerato problema del “conflitto angolare”: l’impossibilità di collocare il triglifo angolare nella sua posizione ideale, cioè sopra l’asse della sottostante colonna. È il problema che l’architettura dorica, già a partire dalla metà del VI secolo a.C., cominciò a risolvere mediante lo stratagemma della contrazione dell’interasse angolare: collocare il triglifo d’angolo all’estremità, accorciare l’interasse angolare e poi, mediante questa isolata “rottura” della simmetria, distribuire simmetricamente i restanti elementi del fregio in modo da vincere il conflitto e conseguire l’uniformità complessiva. Anche in questo ambito il tempio di Nettuno sfoggia la sua anomalia. La contrazione dell’interasse angolare è infatti differentemente applicata sui quattro lati. Contrazione singola sulle due fronti esastile: solamente l’interasse collocato in ciascuno dei due angoli è contratto, mentre gli altri tre sono di misura “normale”. Contrazione doppia sui due fianchi: qui la contrazione riguarda due interassi per ciascuno dei due angoli, dunque quattro in tutto. In nessun altro tempio di V secolo a.C. venne adottata questa soluzione: laddove c’è la contrazione angolare doppia – per esempio nel tempio di Athena di Siracusa, con cui il tempio di Nettuno condivide l’impianto planimetrico 6×14 – essa riguarda sia le fronti che i fianchi.

(Foto 10) L’angolo sud-ovest del tempio di Nettuno, con l’applicazione della doppia contrazione angolare. © Marco Vasile.

In connessione con queste irregolarità se ne sono aggiunte altre, il cui studio ha orientato in modo decisivo la ricerca di Mertens. Si tratta delle anomalie, cui ci siamo riferiti all’inizio, che caratterizzano in modo particolare i blocchi dell’architrave del fianco settentrionale: essi sono più lunghi rispetto agli altri e numerose regulae e guttae recano tracce evidenti di rilavorazioni e riadattamenti, non essendo state lavorate in blocco ma fissate con sistemi di aggancio. Se si tiene presente che questi elementi formali dell’architrave sono “marcatori” del coordinamento verticale tra il colonnato e la trabeazione, allora si entra nella logica da cui scaturisce la conclusione: questi riadattamenti furono necessari perché l’originaria disposizione degli elementi formali sull’architrave settentrionale rispecchiava un precedente disegno, con una differente spaziatura delle colonne.

Le misurazioni e i calcoli eseguiti da Mertens indicano che tale disegno primitivo era fondato sul principio-guida dell’uniformità degli interassi, al quale poi si rinunciò a favore della definitiva disuniformità: «i blocchi [dell’architrave] disposti sull’attuale colonnato settentrionale, secondo le nostre osservazioni, non corrispondono all’attuale disegno realizzato coll’interasse di 4.50,3 m, ma a un progetto con un interasse normale più grande, di 4.52,5 m» (MERTENS 2019b, p. 204). 2,2 cm di differenza significano, per un tempio dorico, un altro disegno, ispirato a concetti architettonici che possono essere radicalmente differenti.

(5) Come si è visto, Mertens ritiene che ad un certo punto la costruzione del tempio 6×14 avviata sopra il basamento in pietra grigia venne indirizzata verso un nuovo disegno. Quale ne fu la ragione? Qui si apre un’altra biforcazione.

Una prima possibilità è che il tempio subì un decisivo condizionamento da parte del basamento. Lasciato invariato, le sue misure vincolarono il progetto, stabilendone il perimetro di possibilità metriche: il calcolo mostra infatti che, con gli interassi uniformi di 4.52,5 m, il tempio 6×14 avrebbe sopravanzato in lunghezza lo stilobate costruito sopra il preesistente basamento; di qui, la decisione di comprimere la spaziatura delle colonne, rinunciando alla sua uniformità sui quatto lati.

L’altra possibilità è molto più suggestiva, perché si fonda sulla prevalenza della visione dell’intero nella determinazione metrica delle parti: il ruolo determinante svolto dalla «consapevolezza della proporzione complessiva del monumento, nella sua estensione in lunghezza» (MERTENS 2019a, p. 52). Come intuito da Friedrich Krauss, il grande studioso dell’architettura greca di cui Mertens fu allievo, le dimensioni lineari del tempio di Nettuno sono essenzialmente dominate dal rapporto 1:2:5 (altezza:larghezza:lunghezza) (foto 11). 1:2:5 è il rapporto al quale il tempio affida la propria interezza: ponendo come “unità” l’altezza misurata dallo stilobate fino alla fascia (taenia) che sormonta l’architrave, la larghezza e la lunghezza del tempio risultano espressi come multipli interi (rispettivamente, 2 e 5).

(Foto 11) Friedrich Krauss sull’architrave del tempio di Nettuno (da KRAUSS 1941).

Questo preciso rapporto determina l’aspetto del tempio in quanto corpo geometrico disposto nello spazio. L’idea di Mertens è che questo rapporto proporzionale fu la meta in vista della quale, al prezzo della rottura del coordinamento verticale tra colonnato e fregio, venne deciso di rinunciare all’uniformità degli interassi originariamente prevista (che avrebbe comportato un allungamento del tempio), allo scopo di imporre alla lunghezza di “stare dentro” un rapporto tra numeri interi: «solo con queste complicate e costose modifiche era possibile raggiungere anche nella lunghezza del tempio una dimensione esecutiva […] in armonioso rapporto con le altre due che determinano la fronte» (MERTENS 2019b, p. 210). Dunque, sopportazione di irregolarità ed anomalie delle parti (disallineamento dei triglifi rispetto agli assi delle colonne, spaziature diseguali tra fronti e fianchi etc.) in vista del regolare aspetto dell’intero.

Mertens, qui, ha radicalmente ragione nel ritenere molto «più intrigante» della questione della percezione moderna delle architetture antiche, quella del «grado di percezione e della distinzione tra norma e anomalia da parte dell’osservatore antico» (MERTENS 2019a, p. 55). Infatti, mentre possiamo squadernare le terminologie che hanno regolato la trasposizione linguistica della percezione moderna dei templi dorici (‘severo’, ‘austero’, ‘primitivo’, ‘sublime’ e così via), non conosciamo pressocché nulla della “semantica” delle percezioni dei propri templi da parte dei Greci. Impostare una simile questione significherebbe addirittura domandare se ‘osservazione’ sia il termine adeguato per indicare lo sguardo di uomini di cultura greca del V sec. a.C. sui propri edifici sacri. Non è certamente questa, la sede adatta per discuterne.

Tuttavia, il ripensamento cui il tempio 6×14 fu sottoposto quando ne era già stata avviata la costruzione non equivalse forse alla assunzione da parte dell’edificio sacro di una «seconda natura»? (foto 12).

(Foto 12) Planimetria del tempio di Nettuno (da KRAUSS 1941).

Nietzsche usa il concetto di ‘seconda natura’ anche per mettersi completamente alle spalle l’ingenua concezione “neoclassica” della perfezione formale dell’arte dei Greci e afferrare la loro inaudita capacità di costruirsi, in mezzo ad altri orizzonti culturali molto più antichi e resistenti, una «physis nuova e migliorata» (NIETZSCHE 1874) unificando “materiali” storici assolutamente eterogenei. Ciò comportò non solo la sopportazione di anomalie e devianze, ma anche l’adozione spregiudicata di stratagemmi, dissimulazioni e occultamenti. Anche se sopra la dizione universale ‘i Greci’ grava oramai il pesante sospetto della critica contemporanea, forse è anche su quel terreno generale sondato dalle intuizioni di Nietzsche, che poggiò la tolleranza delle vistose irregolarità del tempio di Nettuno da parte degli uomini che lo progettarono e lo videro.

(6) Ricomprese all’interno della storia costruttiva e progettuale del tempio ipotizzata da Mertens, gran parte delle anomalie descritte sopra trova una spiegazione. Ma al contempo, in una inevitabile circolarità interpretativa, sono proprio tali anomalie, la fonte per la ricostruzione a posteriori di essenziali decisioni progettuali. Comprendere il disegno di un tempio, illuminare i metodi della sua progettazione, determinare le regole proporzionali che ne governano le dimensioni: tutto questo è una impresa difficilissima. Nel compierla, la ragione deve procedere a ritroso: dall’opera in carne ed ossa, così come essa si erge davanti al nostro sguardo, alla sua “idea” progettuale, che deve essere estratta dalla pietra. E non esistono algoritmi che, dato un tempio, ne possano calcolare il progetto. C’è ancora dibattito scientifico attorno ai fondamentali metodi progettuali degli architetti greci, questi artefici delle abitazioni terrene degli dèi, di cui sono andati persi tutti i trattati. E l’annosa questione della individuazione del “piede”, cioè dell’unità di misura adoperata, ha davvero l’aspetto di una “metafisica”: un vero e proprio «campo di lotte senza fine», per usare l’espressione di Kant.

Mertens fonda la comprensione di un edificio antico sul rilievo di precisione dei suoi elementi, cioè su accurate misurazioni di tutte le parti, anche le più minute, che compongono l’intero. Ma procedere “secondo misura” nella comprensione di un tempio non significa assoggettarsi ad una visione puramente sincronica. Il rilievo del tempio di Nettuno non lo ha installato in un puro istante teoretico, dove il suo essere si risolve in una totalità astratta di puri rapporti matematici. Con l’ausilio della contestuale osservazione empirica e della conoscenza storica, Mertens ha inserito la perfezione del tempio nel flusso del tempo, svelando i rimandi possibili al suo essere divenuto storico (foto 13). Così sta cominciando a farsi avanti per noi il passato nascosto del tempio di Nettuno.

(Foto 13) La “perfezione” della fronte orientale. © Marco Vasile.

 

Bibliografia

KRAUSS F. 1941, Paestum. Die Griechischen Tempel, Berlin.

MERTENS 2006, Città e monumenti dei Greci d’Occidente, Roma.

MERTENS D. 2019a., Il tempio di Nettuno alla luce di un nuovo rilievo, in “«L’emblema dell’eternità». Il tempio di Nettuno a Paestum tra archeologia, architettura e restauro”, pp. 27-57, Pisa.

MERTENS D. 2019b, Provocatorie novità dal tempio di Nettuno di Paestum, in “Atti della Pontificia Accademia Romana di Archeologia”, Rendiconti XC, 2017-2018, pp. 175-220, Roma.

NIETZSCHE F. 1874, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, tr. it. a cura di F. Masini, Roma 1978.

NIETZSCHE F. 1878, Umano troppo umano I, tr. it. a cura di M. Ulivieri, Roma 1979.

RAPHAEL M. 1930, Der Dorische Tempel (Dargestellt am Poseidontempel zu Paestum), Augsburg.

SCULLY V. 1979, The earth, the temple and the gods. Greek sacred architecture, revised edition, Yale University.

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