Ha fatto scalpore nelle ultime settimane la dichiarazione della storica Bettany Hughes (celebre in UK per la realizzazione e conduzione di vari documentari e programmi divulgativi per emittenti come BBC, History e Channel5), secondo cui sarebbero state trovate prove dell’esistenza delle mitiche Amazzoni della mitologia greca. Le prove in questione sarebbero emerse durante gli scavi condotti in un cimitero dell’Età del Bronzo (circa 2.000 a.C.) nella regione del Nakhchivan, situata nel Caucaso e oggi sotto il controllo dell’Azerbaijan, stretta tra Armenia e Iran settentrionale.

Frammento di rilievo greco, raffigurante l’Amazzonomachia

Ma ci ricordiamo chi erano le Amazzoni? Omero le includeva tra i nemici dei Greci durante la guerra di Troia, e proprio dai miti della civiltà greca ne abbiamo i ritratti più celebri e abbondanti: un popolo di donne-guerriere, che abitavano la regione orientale della Scizia ed eccellevano nell’arte di cavalcare e scagliare frecce con i loro grandi archi. Ercole ne uccise la regina Ippolita durante una delle sue fatiche, e Achille ne trucidò un’altra regina, Pentesilea, durante la guerra di Troia. Da questa base mitica comune fiorirono nel corso dei secoli altri dettagli e racconti, spesso legati all’etimologia del nome di questa comunità femminile. Secondo alcuni, esse si bruciavano o tagliavano il seno destro, per essere meno impedite nel tendere l’arco o nel portare a tracolla la loro faretra (per cui “Amazzoni” da “α-μαζός” = “senza-seno”). Secondo il poeta Virgilio e la sua Eneide si trattava di una condizione meno brutale: le guerriere avrebbero strettamente compresso i loro seni con fasce, sempre al fine di essere più agili nel combattimento (un po’ come l’eroina Mulan nel celebre cartone della Disney, ricordate?). Per quanto suggestivo, tuttavia, si tratta di un dettaglio molto più tardo rispetto ai primi racconti riguardo questi personaggi affascinanti, e non ne costituisce dunque un reale tratto distintivo.

Raffigurazione della regina amazzone Pentesilea da un manoscritto medievale

Ora che il mito è più chiaro, torniamo all’archeologia: che cosa è emerso dagli scavi? In buona sostanza la necropoli ha restituito delle sepolture di donne, di età variegata, con un particolare corredo funebre: tra gli altri oggetti, infatti, sono stati trovate molte punte di freccia, daghe di bronzo e persino qualche esemplare di mazza. Trovare una singola arma in una tomba antica femminile non è, effettivamente, molto frequente, e l’averne rinvenute diverse nello stesso luogo ha acceso l’interesse degli studiosi. Inoltre, le armi “in dotazione” alle defunte sono particolarmente aderenti a quella che è la panoplia tradizionale delle Amazzoni: oltre alle immancabili frecce, le daghe sono tipica arma da cavaliere/arciere, e le mazze per quanto rare sono un’ottima arma secondaria per chi combatte a cavallo. Tuttavia, i dati che hanno spinto la Hughes a parlare di Amazzoni non terminano qui: altri elementi dei corredi (ad esempio una perlina in cornalina, pietra semi-preziosa proveniente dalla lontana India) indicano che le donne qui sepolte dovevano appartenere all’élite o, per lo meno, a un gruppo sociale tenuto in alta considerazione.

Scultura greca raffigurante un’Amazzone morente

Ma è dall’analisi degli scheletri che sono emersi i dati più sorprendenti: le ossa delle dita delle mani mostrano deformazioni comuni a tutte, conseguenti a un prolungato uso dell’arco e delle frecce, che secondo gli esperti non sarebbe imputabile alla sola attività di caccia; si tratterebbe di tracce inequivocabili di addestramento ed esercizio continuo della vita militare. Altra deformazione interessante, riscontrata in tutti i corpi, è quella del bacino: ricordate la camminata iconica di John Wayne e dei suoi compari cowboy, con le gambe larghe e i talloni leggermente all’in dentro? Ecco, quella camminata è compatibile con le deformazioni delle “amazzoni del Nakhchivan”, ed entrambe sono dovute alla stessa causa: una vita vissuta a cavallo. Ecco quindi il quadro finale che emerge dal contesto archeologico: un gruppo di tombe di donne-guerriere, che passavano la vita a cavallo e specializzate nel combattimento con arco e frecce, tenute in grande considerazione dalla loro comunità di appartenenza. Certo, una situazione che di primo acchito ricorda molto il mito delle Amazzoni, ma anche con alcune importanti differenze.

Ed è proprio Bettany Hughes a introdurre l’ultimo, importante elemento a sostegno della sua affermazione [segue traduzione dall’inglese, n.d.r.]: “Una civiltà non si può ricostruire da una sola sepoltura. Se stiamo parlando di una cultura che si estendeva attraverso il Caucaso e la Steppa, che è ciò che gli antichi sostenevano, ovviamente sono necessari altri resti”. E questi “altri resti” paiono essere stati identificati negli ultimi anni: si cita la scoperta di alcune sepolture assimilabili a quelle del Nakhchivan in Russia (2019), in Armenia (2017) e ai confiini del Kazakhistan (anni ’90)… in effetti, una copertura estremamente compatibile alla “Scizia” in cui i Greci ponevano la patria delle mitiche Amazzoni. Siamo dunque di fronte a una sorprendente conferma di miti millenari? Non esattamente.

La Scizia: grande regione estesa tra Mar Nero e Mar Caspio

Quello che gli archeologi stanno scoprendo, se dovessero essere confermati tutti i dati e le teorie fin qui elencati, sarebbe il classico “fondo di verità” che “sta alla base di ogni leggenda”, come si suol dire. Fatta questa doverosa precisazione, è di nuovo la stessa Hughes a presentare un’ipotesi di ricostruzione del fenomeno storico che avrebbe dato origine al mito delle Amazzoni: secondo alcuni racconti tradizionali da lei raccolti in prima persona nei villaggi del Caucaso, “in tempi antichi” i villaggi restavano spesso privi della componente maschile, via al seguito delle mandrie e delle greggi, costringendo le donne a camuffarsi da uomini e a imbracciare le armi per la difesa della casa e dei membri più vulnerabili della famiglia. In effetti, più che dare testimonianza di una comunità di sole donne adoratrici della luna e dedite alla guerra a cavallo, i resti archeologici sembrano suggerire qualcosa di più “tradizionale”: l’uso presso i popoli di quest’area geografica di addestrare anche le donne alla vita semi-nomade e al combattimento, in conseguenza delle particolari necessità di sopravvivenza delle loro tribù.

La storica e divulgatrice Bettany Hughes, sui resti di un insediamento in Azerbaijan. Credits to The Guardian

Attenzione quindi alle notizie annunciate con clamore mediatico o con sensazionalismo! La dichiarazione della Hughes è stata rilasciata proprio a ridosso della messa in onda della prima puntata del suo nuovo ciclo di documentari “Treasures of the World”… si sa, le vie della pubblicità sono infinite!

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Giulio Vignati

Nato nel 1997, grande appassionato di storia antica e storia in generale, frequenta il Liceo Classico a Milano diplomandosi nel giugno del 2016. Si iscrive poi al corso di laurea in Lettere con indirizzo Antichista presso l’Università degli Studi di Milano, laureandosi nell’ottobre del 2019 con una tesi in Epigrafia Latina dal titolo “Gli equites nella documentazione epigrafica di Brixia”. Passa poi al corso di laurea magistrale in Archeologia presso la medesima università, specializzandosi in storia e archeologia del Vicino Oriente Antico e conseguendo la laurea con una tesi di ambito vicino-orientale dal titolo “Produzione e circolazione di manufatti d’argento tra Anatolia e Mesopotamia Settentrionale durante il Bronzo Medio”. Dal 2020 è membro della missione italiana in Turchia PAIK, che scava presso l’antico sito anatolico di Kaniš/Kültepe, e della missione italiana nel Kurdistan Iracheno MAIPE, che scava presso gli antichi siti di Tell Aliawa e Tell Helawa, partecipando alle operazioni di scavo, documentazione e post-scavo di entrambi i progetti.
 

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