Anche oggi, nell’Oasi di Kharga, in Egitto, si è potuto assistere al raro fenomeno astronomico ed ingegneristico che colpisce il tempio di Hibis due volte l’anno. Il sole all’alba, innalzandosi, si è allineato al portale orientale e con i suoi raggi infuocati lo ha attraversato percorrendo tutto l’asse centrale del tempio fino a raggiungere il Sancta Sanctorum, la zona più interna e nascosta del tempio di solito avvolta dall’oscurità. Questo spettacolo mozzafiato dura solo cinque minuti, ma è un fenomeno che si ripete da circa 2500 anni il 6 settembre e il 7 aprile di ogni anno, anche se è stato osservato solo recentemente, precisamente dal 2014, quando un ricercatore della facoltà di ingegneria della October 6 University del Cairo, nello sviluppare un progetto che si propone di esaminare gli allineamenti di tutti i templi egiziani rispetto al sole, si è accorto che anche questo tempio, al pari di tanti altri e più famosi, è stato costruito seguendo il tragitto del sole. Ahmed Awad, questo il suo nome, ha finora individuato diciassette templi allineati all’astro diurno e ognuno di loro sviluppa fenomeni a loro modo emozionanti, anche se quello che ancora attira ogni volta centinaia di turisti rimane sempre il tempio maggiore di Abu Simbel (qui l’articolo sul miracolo del sole al tempio di Ramesse II). Il significato delle due date rimane ancora sconosciuto: non sono collegate alle stagioni scandite dalle fasi della piena del Nilo come accade ad Abu Simbel, né sono collegate ai solstizi come accade il 21 dicembre a Karnak e a Qasr Qarun, ma queste date potrebbero essere sincronizzate a particolari cerimonie religiose che venivano celebrate in quei due giorni in onore di Amon-Ra, titolare del tempio insieme alla moglie Mut e al figlio Khonsu.
Il tempio di Hibis è il santuario più grande e meglio conservato nel Deserto Occidentale; lo stato di conservazione è forse dovuto anche al fatto che è rimasto coperto dalle sabbie fin quando non è stato scoperto e liberato da esse agli inizi del XX secolo. Nell’Oasi di Kharga, la più meridionale delle oasi del Deserto Libico e definita da Erodoto “isola dei felici”, la maggior parte delle vestigia antiche risalgono all’epoca tolemaica e romana, anche se il tempio di Hibis fu eretto durante il dominio persiano. Voluto da Apries (sovrano della XXVI dinastia) fu costruito con calcare locale, con un orientamento est-ovest, nel 588 a.C. – anche se la sua fondazione potrebbe essere più antica – e fu completato da Dario I (XXVII dinastia) nel 522 a.C. Appare oggi ai nostri occhi con ricchi ed importanti rilievi di figure e segni geroglifici, un tempo policromi, che narrano storie, miti e rituali antichissimi i quali impreziosiscono ancora tutte le pareti presenti. Un viale di sfingi conduce alle sue porte monumentali attraverso le quali ci si immette in tre sale ipostile che sfociano nel naos. Il chiosco, con otto colonne sormontate da capitelli, fu costruito da Nectanebo II (XXX dinastia), mentre la porta principale, su cui è incisa una lunga iscrizione greca, fu costruita dai Tolomei; anche i Romani, nel 69, apportarono il loro contributo costruendo il più esterno dei portali d’ingresso. Le iscrizioni riportate su questa porta si sono rivelate di un’importanza notevole per le informazioni in esso contenute relative alle tasse, alla corte, alla gestione delle eredità e ai diritti delle donne. Dopo l’avvento della cristianità, nel IV secolo è stata edificata anche una chiesa lungo il lato settentrionale del portico; e successivamente divenne perfino un forte militare conosciuto come la fortezza di EL-Ghuweita di Qasr, presidio che permise alla città che ospitava il tempio di Hibis, Hebet, di divenire capitale fortificata dell’oasi.
Anche se il tempio è dedicato alla triade tebana non mancano le raffigurazioni degli altri dei, tanto che la lista degli dei rappresentata nel santuario costituisce una delle tante particolari rappresentazioni impresse in esso. In questo elenco, davvero inusuale è l’immagine del dio Seth situata nel corridoio della sala ipostila dove lo vediamo rappresentato come una figura blu, alata e con la testa di falco, immortalato con in pugno la sua lancia sopra il serpente Apophis: l’immagine è stata interpretata da alcuni storici d’arte come precorritrice della rappresentazione iconografica di San Giorgio e il drago[1].
Un’altra rarissima rappresentazione parietale è quella di un particolare rituale magico descritto qui minuziosamente e conosciuto attraverso diversi papiri con il nome del “rituale delle quattro sfere d’argilla”, rito che veniva eseguito per proteggere Osiride dagli attacchi del suo malefico fratello Seth[2].
Nell’antichità il tempio era circondato d’acqua – forse un lago ora prosciugato – acqua che sicuramente abbondava e rendeva estremamente rigogliosa questa terra, come lo ricorda anche l’antico nome della città, in quanto Hebet significa letteralmente “città dell’aratro” (Hebet è una derivazione di Heb, aratro, nome quindi probabilmente attribuito proprio per la fertilità della zona).
Certo, per chi ha gli occhi pieni della maestosità dei templi dell’antica Tebe, forse questo edificio può sembrare minuscolo e insignificante, ma le sue decorazioni e i suoi contenuti insoliti, le particolari rappresentazioni riguardanti lo stile e i temi esposti, il livello di conservazione, la simbologia in esso contenuti e anche questo allineamento solare in questo particolare momento dell’anno ne fanno certo uno tra i templi più significativi dell’antico Egitto, oltre ad essere uno dei templi più pregevoli edificati nella terra dei faraoni nel periodo persiano.
[1] Andrea Vitussi
[2] Andrea Vitussi