Di Generoso Urciuoli e Gianmarco Gastone
Il museo Egizio di Torino conserva una serie di manufatti definibili genericamente di produzione “islamica”, provenienti presumibilmente dall’Egitto[1]. “Come si sia formata questa piccola collezione araba è una storia a sé stante, una vera e propria ricerca connotata da notizie molto frammentate, in alcuni casi solo brevi accenni, il cui risultato, la composizione di un quadro omogeneo o di informazioni esaustive, è tutt’altro che scontato”. [2]
All’interno di questo materiale, insieme a una stele funeraria di epoca fatimide[3] sono presenti due contenitori ceramici definiti genericamente “bombe” e datati “post 641”.
Questo articolo ha lo scopo di analizzare in maniera più approfondita i due manufatti.
Pur nell’assenza di una classificazione tipologica condivisa dagli studiosi per ciò che riguarda la ceramica di produzione islamica, i due reperti in esame sono afferenti alla tipologia “unglazed wares” e nello specifico possono essere definiti “contenitori tronco-conici”.
I primi ritrovamenti di tali manufatti, che come si vedrà successivamente sono avvenuti alla fine del XIX secolo, hanno subito posto in essere una discussione tra gli studiosi, in particolare circa la loro funzione originaria messa in relazione alla loro particolare forma.
I contenitori tronco conici costituiscono un gruppo distinto rispetto alle altre ceramiche soprattutto per la loro forma; precisamente, i contenitori tronco-conici possono essere descritti, in breve, come un tipo di manufatto in ceramica costituito da uno spesso e resistente corpo, che è sovente rivestito da un sottile strato argilloso grigio o marrone, decorato con incisioni, tagli o decorazioni applicate. Raramente tale tipologia di oggetto è decorata sotto vetrina.
“Sempre a forma cuoriforme, con un corpo centrale di forma sferica e un’apertura nella parte in alto”[4]; nello specifico il corpo del manufatto è costituito da collo stretto e corto che termina in molti casi con un orlo. La parte superiore (definibile “beccuccio”) è caratterizzata dalla presenza di un foro dalle dimensioni diverse che varia da pochi millimetri a qualche centimetro a seconda dell’oggetto; il manufatto presenta inoltre ampie spalle e la parte inferiore è simile al puntale di un’anfora.
La sua lunghezza oscilla tra i 5 e i 30 cm, Questi contenitori tronco-conici sono stati rinvenuti in diverse aree del mondo islamico: Egitto[5], Siria, Israele[6], Palestina, Libano[7], Iraq[8], Turchia[9], Afghanistan e Iran[10] (). Altri esemplari sono stati rinvenuti in area caucasica[11] e in Bulgaria[12]. Nell’ottica di identificare le funzioni di questi recipienti, può essere significativo rilevare come questi reperti non siano stati ancora rinvenuti in Occidente, in particolare in quei paesi che oggi chiamiamo Libia, Tunisia, Algeria, Marocco e Spagna.
Prima di concentrarsi sulle due testimonianze del museo torinese, è necessario ammettere che lo studio di questi materiali non risulta semplice poiché “pochi contenitori sono stati rinvenuti nel loro contesto stratigrafico originario e solo in pochi scavi; inoltre, a causa del lavaggio della ceramica effettuato dagli archeologi, gli eventuali residui organici sono stati lavati via”[13]. Nonostante ciò, collegando l’oggetto di questa ricerca a ritrovamenti più recenti, è possibile specificare in maniera più precisa il range cronologico e spaziale della loro produzione, aprendo le porte a nuove riflessioni circa le loro destinazioni. In questo articolo, dopo una loro attenta descrizione, si proporranno alcuni confronti con altri manufatti e, infine, si ragionerà sulle loro funzioni.
DESCRIZIONE
I due esemplari torinesi differiscono innanzitutto per le dimensioni: il primo (A) presenta un diametro di 9 cm, un’altezza di 10.5 cm e un beccuccio largo 1,2 cm. Il secondo (B) risulta di dimensioni leggermente maggiori, con un diametro di 10,2 cm, l’altezza pari a 13 cm e un beccuccio di 0,5 cm. Anche le basi risultano differenti: quella del contenitore A risulta essere arrotondata con un restringimento maggiore rispetto al B, in cui invece la riduzione si ferma ad un centimetro.
Un’altra differenza è rappresentata dal poco profondo solco che scorre ai piedi del beccuccio che, nel contenitore A, risulta essere singolo e, nel B, sembrerebbe sdoppiarsi, andando a costituire una doppia fascia. In futuro, è auspicabile un esame per misurare lo spessore delle pareti che, attraverso un’attenta osservazione, proporzionalmente, apparirebbero abbastanza spesse, 1 cm circa.
Arrivando agli aspetti legati alla decorazione – in entrambi i casi incisa – , mentre il manufatto A mostra un motivo a pigna o a squame di pesce, meglio distinguibile sulla metà più alta del recipiente, il B presente una decorazione più elaborata, organizzata attorno a diciotto linee, organizzate in sei gruppi da tre che scorrono longitudinalmente dal beccuccio alla base. Negli interspazi, in tre casi si ripete la decorazione del manufatto A, nei rimanenti sembra delinearsi una decorazione meno fitta, caratterizzata da motivi a rosette. Al di sotto del doppio solco, scorre una fascia a corona che sembrerebbe ripetere il motivo a pigna o a squame di pesce.
CONFRONTI
Poiché i due reperti torinesi fanno parte di una classe ceramica che conta al suo interno numerose testimonianze, rinvenute nelle più diverse aree del mondo islamico e afferenti epoche estremamente diverse, per affinare il confronto, si rende necessario un riferimento alle principali classificazioni messe a punto fino a questo momento.
Ogni studio che si ponga l’obiettivo di delineare i caratteri peculiari di questi contenitori non può tralasciare quello che è stato il primo tentativo di schematizzazione realizzato nel 1978 da Abd al-Rauf, in lingua araba. Per questioni logistiche, non è stato possibile visionare tale pubblicazione ma nel 2008 Jacob Sharvit, per studiare i contenitori tronco-conici da lui rinvenuti presso la Cittadella del Cairo, l’aveva parafrasata facendo riferimento al tipo A (egizio) e al tipo B (siriano). E’ evidente come anche una superficiale riflessione possa spingere a ricondurre i manufatti torinesi al tipo A, in ragione della loro provenienza e del colore della superficie.
Tuttavia, basandosi su una crono-tipologia più recente, realizzata da J.Monchamp[14] – in occasione della pubblicazione del materiale ceramico messo in luce durante gli scavi archeologici che hanno riguardato le mura medievali del Cairo – è possibile distinguere alcune categorie all’interno del tipo A egizio.
Sulla base di un’indagine stratigrafica, la studiosa dell’Institut français d’archéologie orientale, pur escludendo generalizzazioni, ha individuato principalmente tre tipologie che, con uno sguardo di insieme, lasciano intravedere l’evoluzione che ha riguardato questo manufatto:
- Bottiglie fatimide
- Contenitori tronco-conici ayyubbidi
- Contenitori tronco-conici mamelucchi
Sulla base dei caratteri formali in precedenza evidenziati, si può affermare come i due esemplari torinesi trovino maggiori riscontri con la tipologia C: in tal caso, essi andrebbero datati ai primi decenni della dominazione mamelucca in Egitto. Tra le caratteristiche formali che accomunano i recipienti del museo egizio a quelli cairoti, emergono le dimensioni e la forma dei recipienti ma anche, e soprattutto, il colore del rivestimento e le decorazioni che li caratterizzano. Infatti, mentre il vasellame fatimita si caratterizzava per una forma globulare, in età ayyubbide emerge la forma tronco-conica che nel periodo mamelucco verrà arricchita di motivi decorativi.
Gli esemplari torinesi trovano riscontro anche coi contenitori rinvenuti presso le fortificazioni ayyubbide e mamelucche di Baniyas[15], in Israele, con lievi differenze a livello di decorazione, caratterizzate in questi casi dagli stessi motivi con incisioni però più profonde. Altri confronti provengono da Quseir[16], Fustat[17], Tell Edfu[18], Kerak[19], Beirut[20], Baalbek[21], Acri[22], Bet She’an[23] e Gerusalemme[24].
RIFLESSIONI FINALI
Sulla base dei confronti effettuati in precedenza, la datazione dei contenitori tronco-conici torinesi oscillerebbe tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo, riconducibili quindi ai primi decenni della dominazione mamelucca in Egitto. Se, da una parte, quindi, è possibile delimitare in maniera più chiara l’orizzonte temporale di riferimento, le loro funzioni meritano nuove riflessioni.
Una delle prime ipotesi, già proposta nel 1874, interpretava questi oggetti come granate[25]: questa spiegazione – avanzata per la prima volta da F. Saulcy, dopo il ritrovamento di sessanta “granate” disposte in cerchio attorno ad un vaso di maggiori dimensioni – sembrerebbe corroborata anche da fonti scritte, nelle quali si fa riferimento all’uso di questi oggetti durante le Crociate, per bruciare le macchine d’assedio in legno. Esse potevano essere lanciate a mano o attraverso altre macchine militari[26].
Grazie ad analisi scientifiche, si ritrovarono al loro interno tracce di mercurio e, di conseguenza, si immaginò al loro interno la presenza di nafta, ingrediente fondamentale per la realizzazione del fuoco greco. Questa tesi sembrò trovare supporto nei contesti- spesso militari – in cui questi reperti erano stati trovati e nelle fonti scritte cristiane riguardanti le Crociate[27]. Da questo punto di vista, sarebbe interessante riconsiderare questi ritrovamenti con il tentativo di classificazione delle fortificazioni egiziane medievali proposto recentemente da Pradinés[28].
Nonostante questo ventaglio di argomentazioni[29], pare lecito domandarsi il motivo per cui oggetti pensati per esplodere fossero stati dotati di pareti così spesse[30]; anche il loro peso non si adatterebbe al lancio a mano e, nel caso in cui essi fossero stati lanciati da macchine d’assedio, come si era già chiesto lo studioso francese, “why using siege machines to launch such small objects?”[31] Anche la presenza delle decorazioni su un alto numero di esemplari escluderebbe il loro utilizzo come armi, dato che “the common arms of soldiers were not as richly-decorated.”[32] Un uso o un riutilizzo militare di questi oggetti mi pare non possa essere escluso per quei manufatti non decorati che, come già suggerito da Sauvaget[33] ma anche più recentemente da Pradines[34], potrebbero essere stati usati o riutilizzati come terminazione di manganelli o scettri.
Altre due ipotesi si basano sul fatto che numerosi di questi contenitori sono stati rinvenuti in contesti domestici: la prima, suggerita da Seyrig[35] sulla base di quanto scritto in precedenza da Hildburgh[36], li considererebbe eolipile; la seconda, recentemente proposta da Whitcomb, li interpreta come oggetti per accendere il fuoco. La prima interpretazione è contraddetta dall’assenza di bruciato sulla superficie di questi recipienti[37] ma anche dal fatto che “objects placed in a fire are normally never decorated.”[38]
La seconda ipotesi[39] meriterebbe invece di essere approfondita perché uno strumento pensato per accendere il fuoco può anche non presentare tracce di bruciato, come invece suggerito da Pradines[40]. Al contrario, in passato erano state rintracciate all’interno di questi recipienti tracce di pirite[41] e strumenti simili sarebbero stati utilizzati successivamente dai soldati ottomani[42].
Secondo altri, questi contenitori sarebbero serviti per contenere birra[43] o vino[44]. Tuttavia, considerando il diametro dell’apertura, tale recipiente risulterebbe piuttosto inadatto a versare o bere queste bevande. Inoltre, come già sostenuto in passato[45], le pareti interne sarebbero troppo porose per contenere liquidi come il vino o la birra.
Da ultimo, le dimensioni dei recipienti analizzati da Gouchani e Adle sono di dimensioni maggiori[46] rispetto a quelli torinesi e presentano un foro di dimensioni leggermente maggiori, più adatto quindi al versamento di birra o vino in un bicchiere.
Un’altra interpretazione individuerebbe in questi reperti contenitori destinati a conservare il mercurio che, come testimoniato dalle fonti scritte coeve, era usato molto spesso nella medicina o nella cosmesi. Questa ipotesi, corroborata anche da analisi scientifiche[47] era stata avanzata già nel 1965, anche sulla basi di studi etnologici[48], da Ettinghausen[49] che, però, nello stesso contributo, specificò come la grande quantità di oggetti trovati fosse in contraddizione con la rarità di questo materiale e come di conseguenza essi fossero destinati anche ad altri usi.
La destinazione medica teorizzata dallo studioso statunitense non esclude l’ipotesi secondo la quale questi contenitori fossero preposti alla conservazione e trasporto di profumi e altri prodotti cosmetici. Questa interpretazione – oltre ad essere sostenuta da quanto rappresentato sul rilievo in stucco di Qasr al-Hair al-Gharbi[50] – trova riscontro nei precedenti ellenistici e consentirebbe di spiegare anche le ristrette dimensioni del foro posto sulla sommità del contenitore, poiché queste sostanze erano utilizzate in piccole quantità e, se usate per curare gli occhi, goccia per goccia[51].
Inoltre, lo spessore delle pareti consentirebbe al contenitore di resistere ai viaggi lunghi e alla pressione esercitata da eventuali liquidi gassosi contenuti all’interno[52]. In più, bisogna aggiungere che numerosi di questi manufatti sono stati trovati presso i minareti, presso cui vi erano strutture predisposte alla purificazione precedente la preghiera[53].
In definitiva[54], sulla base di quanto scritto, pare prematuro attribuire una funzione a questi contenitori troncoconici. Infatti, come illustrato recentemente da Pradines[55], per comprendere al meglio l’identità di questi recipienti, è necessaria la creazione di una carta distributiva non appiattita dal punto di vista cronologico, che mostri la diffusione di queste testimonianze in tutto quello che era il mondo islamico. Inoltre, collegate alla loro distribuzione, analisi petrografiche e chimiche su questi reperti consentirebbero di porre luce sulla provenienza dei materiali con cui furono realizzati e, perlomeno nei casi più fortunati, di recuperare tracce del contenuto.
Lo stesso studioso francese evidenzia la centralità delle analisi chimiche da condurre all’interno di questi vasi e, infine, la redazione di una crono-tipologia che mostri la genesi e lo sviluppo di tale oggetto, per poi comprendere da che cosa fu sostituito, senza dimenticare una riflessione circa il motivo per cui questi contenitori non siano stati rinvenuti nei territori islamici occidentali o sulla costa orientale nordafricana. Da ultimo, tornando al recipiente A del Museo Egizio, attraverso metodologie scientifiche, potrebbe essere utile osservare al meglio la parte bassa, dove la decorazione è meno evidente, per evidenziare un’eventuale presenza di un’iscrizione[56] che, in genere, era apposta poco al di sopra della base.
Allo stato attuale delle ricerche, ponendo al centro i diversi contesti di rinvenimento, al netto di future analisi, ci sentiamo di legare questi reperti al commercio. Infatti, i siti di ritrovamento si pongono in genere lungo direttrici commerciali – dai siti presso il Nilo, alla costa siro-palastinese, fino all’altopiano iranico. Scendendo nello specifico, per quanto concerne i contesti domestici, si potrebbe collegare la presenza di questi manufatti ai proprietari degli edifici residenziali e ad eventuali magazzini ubicati al loro interno. In rapporto invece ai ritrovamenti presso le fortificazioni, è necessario evidenziare come le barriere, più che costituire una linea di demarcazione tra città e deserto o tra mondo sedentario e nomade, dovessero filtrare le interazioni tra due mondi così diversi e che, di conseguenza, tra gli elementi risparmiati vi potesse essere il commercio, le cui transazioni potevano svolgersi anche presso le mura.
Il rinvenimento di tali reperti presso le mura potrebbe anche essere assimilato ad un riutilizzo militare di oggetti che – per i motivi illustrati in precedenza – non potevano essere nati per essere distrutti in un conflitto a fuoco. Questa tesi, per riprendere le parole di Pradines[57], collegherebbe questi reperti al “tranport of exotic and precious products coming from Sub-Saharan Africa or the Indian Ocean, such as perfumes, aromatic powders or spices…”
Questa interpretazione – oltre a non escludere un occasionale uso di questi recipienti per il trasporto o la conservazione di medicinali[58] ottenuti col mercurio e a non escludere nessuna tra le aree di rinvenimento di questi manufatti – si intreccerebbe anche con la storia economica, poiché il XV secolo, che segnerebbe la fine della circolazione di questi reperti, indica anche l’apertura di nuove di vie di comunicazione che avrebbero quindi posto fine al monopolio commerciale gestito dai Musulmani sul commercio delle spezie[59] e la conquista ottomana dell’Egitto.
Rimangono aperti altri interrogativi in merito a questi manufatti che senza dubbio risultano essere gli oggetti più traversali della produzione islamica in epoca medievale: ad esempio, e sarà oggetto di ulteriore approfondimento da parte degli autori di questo contributo, sul come venissero prodotti. Date le dimensioni e la forma, si potrebbe ipotizzare che venissero realizzati a stampo.
[1] Urciuoli G. 2018, p 8
[2] Urciuoli G. 2018, p 8
[3] tale stele è stata studiata per la prima volta nel 2016 da uno degli autori di questo articolo e pubblicata nel 2018 in “Husna la Bellissima. Una stele fatimide a Torino”. Kemet edizioni 2018
[4] PRADINES S., 2016, pp. 153-154
[5] FRANCOIS, 1999; GAYRAUD, TREGLIA, VALLAURI, 2009, pp. 171-191
[6] AVISSAR, STERN, 2005, 224
[7] GREVILLE J. CHESTER, 1871, pp. 480-481; VEZZOLI V., 2016, pp. 209-231
[8] GOUCHANI, ADLE, 1992, pp. 72-92
[9] SEYRIG, 1959, pp. 81-89; ARNON, 2007, pp. 38-99; Cytryn-SIlvermann, 2010, pp. 97-213; CEKEN, 2013, pp.345-363; TUNCEL, 2014, pp. 1039-1062
[10] ETTINGHAUSEN, 1965, p. 218-229
[11]Per una bibliografia completa si rinvia alla not 1 in VEZZOLI V., 2016, p. 209
[12] FRANCOIS, 1999, p.31;
[13] SHARVIT J., 2008, p. 102
[14] MONCHAMO J., 2016, p.197
[15] TZAFERIS V., ISRAELI S., 2008, p. 166 e SHARVIT J., 2008, p. 105
[16] WHITCOMB D.S., JOHNSON J., 1982, p. 49
[17] ‘ABD AL-RAUF, 1978, p. 25
[18] RUSZCZYC B., 1962, p. 88
[19] MILWRIGHT M., 2008, p. 363
[20] FOREST C. AND FOREST J.D., 1982, p.62
[21] VEZZOLI V., 2016, fig. 6.1 e 6.2
[22] STERN E.J., 2012, p. 295
[23] AVISSAR M., 2014, p.139, n. 7
[24] PRAG K., 2006, fig. 4
[25] ARENDT W., 1931, pp. 206-211; MERCIER M., 1952; RUSZCZYC, 1962; BOSI R., 1966, pp. 38-48
[26] PRYOR J.H. et alii, 2006, pp. 378-379; FORBES R.J., 1959, pp. 70-90
[27] GOUCHANI, ADLE, 1992, p. 72
[28] PRADINES S., 2016b., pp. 25-78
[29] Anche Ettinghausen rilevò la scarsa attendibilità di questa tesi (ETTINGHAUSEN R., 1965, p. 225)
[30] LANE A., 1947, p. 27
[31] PRADINES S., 2016, p. 154
[32] ibidem
[33] SAUVAGET j., 1949, pp. 525-530
[34] PRADINES S., 2016/a, pp. 232-242. In questo contributo si fa riferimento ad oggetti decorati, riutilizzati nel XIX secolo nell’attuale Sudan come terminazione di armi assimilabili ai manganelli o ad oggetti di alto valore simbolico come gli scettri.
[35] SEYRIG, 1959, pp. 81-89
[36] HINDBURGH W.L., 1951, pp. 27-55
[37] WHITCOMB D., 2016, p. 183
[38] PRADINES S., 2016, p. 157
[39] Per maggiori argomentazioni a sostegno di questa tesi, si faccia riferimento a WHITCOMB D., 2016, pp. 183-185.
[40] PRADINES S., 2016, p. 157
[41] BROSH N., 1980, pp. 114-115
[42] PRAG K. 2008, pp. 265-269
[43] GOUCHANI A., ADLE C., 1992, pp. 72-87
[44] SALAME’ SARKIS, 1980, p. 218
[45] SEYRIG, 1959, pp. 81-89
[46] Questa differenza fu già notata da Jacob Sharvit, in SHARVIT J., 2008, p. 103
[47] Limitandosi alle più recenti SALAME’-SARKIS, 1980, p. 219, n. 5 e AVISSAR, STERN, 1995, p. 119
[48] Interessante anche il parallelo etnologico con le popolazioni tradizionali del Turkestan in STANICA A.D., SZMONIEWSKI B.S., 2016, p.339
[49] ETTHINGAUSEN R., 1965, p. 223
[50] ETTINGHAUSEN R., 1965, p. 224
[51] PRADINES S., 2016, p. 158 e SHARVIT J., 2008, p. 103
[52] SHARVIT J., 2008, p. 103
[53] YELEUOV M., AKYMBERK Y.S., CHANG C., 2014, p. 386
[54] In questo paper ci siamo limitati a citare le interpretazioni che abbiamo ritenuto più significative, condivise da un più alto numero di studiosi. In realtà, vi sono anche altre interpretazioni, per le quali rinviamo alle sintesi in PRADINES, 2016 e VEZZOLI, 2016
[55] PRADINES S., 2016, p. 161
[56] Per una sintesi corredata da un’abbondante bibliografia si rinvia a VEZZOLI V., 2016, p. 222 e 225
[57] PRADINES S., 2016/a, p. 241
[58] SHARVIT J., 2008, p. 103
[59] PRADINES S., 2016/a, p. 241
Argomento molto interessante. Frequento i musei archeologici, compresi quello egizio di Torino e il MAO, la mia passione. Oggi ho avuto la fortuna di conoscere il dottor Generoso Urciuoli nella mia città, Mantova che ha magnificamente illustrato un’opera della Collezione Egizia e Araba di Giuseppe Acerbi a Palazzo Te “La sella mamelucca”.
All’esauriente disamina, ad opera dell’illustre Studioso, dello stato attuale delle conoscenze e delle ricerche attinenti a questa “sfuggente” ma interessantissima classe di materiali — con sensibile presenza di esemplari nel mercato antiquario a cui non pare sia contestuale un’altrettanta puntuale conoscenza di quelli di collezioni museali pubbliche — che l’Autore tende ad assegnare quasi esclusivamente ad ambiti di produzione islamici egiziano- orientali, precipuamente appunto fatimidi, ayyubbidi e mamelucchi — mi permetto in questa sede di aggiungere, al novero dei possibili utilizzi/riutilizzi di tali “granate incendiarie” fittili, anche quello ludico domestico, pertinente a un proponibile uso di trottole. La tettonica vascolare di questi contenitori, oltre alle caratteristiche di robusta consistenza delle pareti del corpo ceramico, potrebbero infatti indicarne un uso — originario ovvero secondario, cioè di riutilizzo — connesso al gioco infantile e adolescenziale della trottola, passatempo da cortile assai diffuso fino in avanzata epoca contemporanea almeno in ambito sud italiano. In Sicilia quest’espressione ludica popolare prende ancora il nome dialettale di “paloggiu” (specie in area messinese), la cui trottola troncoconica, realizzata in legno tornito con puntale munito di una robusta punta metallica, veniva lanciata a roteare sul suolo — solitamente su una pavimentazione piana in pietra, cotto o legno — mediante il sapiente uso di una cordicella con un capo fissato alla sommità del manufatto, precedentemente avvolta e sapientemente manovrata.
Come Tony Malatino, anche a me questi oggetti fanno pensare a delle trottole.