Essere invitati a cena da ricchi personaggi romani di tanti secoli fa era un’esperienza che non tutti avevano il piacere di provare. Andare a una delle cene organizzate da ricchi o potenti dell’epoca significava varcare la soglia di un mondo fatto di lusso e stravaganza che molti potevano solo sognare. Le cene nelle lussuose abitazioni romane si svolgevano nel triclinio, ambiente  che deve il suo nome ai tre letti generalmente presenti e destinato ai convivi.

 

Rappresentazione di un bacchetto romano. Immagine dal web.

 

Ogni letto poteva accogliere fino a tre persone per un totale di nove ospiti, un numero considerato dai superstiziosi romani perfetto perché era lo stesso delle nove Muse[1] della mitologia. In realtà, sappiamo che molti banchetti erano molto più affollati e superavano di gran lunga questo numero. I letti triclinari[2] erano in legno, con parti in avorio o metallo e avevano gli immancabili cuscini per sedersi (anzi sdraiarsi!) in maniera più confortevole. Erano disposti a ferro di cavallo e in mezzo a loro vi si disponevano uno o più tavoli che erano utilizzati prevalentemente con la funzione di punti d’appoggio.

Dal momento che si mangiava con il piatto in mano i Romani li usavano solo per poggiarci i piatti di portata. I tavoli venivano rivestiti con tovaglie di stoffa, consuetudine mantenuta inalterata fino ad oggi. Un’apparecchiatura raffinata includeva l’ampolla dell’aceto, gli stuzzicadenti di legno, la saliera, fiori freschi, candelabri, portalampade, ricche suppellettili di bronzo, di vetro, o di ceramica: da un lato queste suppellettili erano funzionali ad accogliere adeguatamente gli ospiti, dall’altro servivano ad ostentare la ricchezza del padrone di casa. Oltre a tutti questi oggetti non mancavano poi quasi mai dei brucia-profumi, usati non solo per coprire gli odori che provenivano dalla cucina ma anche… quelli emanati da quegli ospiti non particolarmente attenti all’igiene personale!

Un altro oggetto, inoltre, faceva sempre bella mostra di sè sulle tavole dei ricchi: era un piccolo scheletro snodabile. Qual era la funzione e il significato di questo scheletro[3]? Era la rappresentazione della morte che, a volte, veniva incisa anche sulle coppe di vino accompagnata da scritte che invitavano il commensale a godere del momento di gioia e di piacere che stava vivendo. La ragione per cui si esponevano questi oggetti era un invito al godimento di quel particolare momento di socialità e convivialità: un carpe diem[4] a tavola. Tutto terminerà con la morte e allora perché non approfittare del momento? Questo era il messaggio, non troppo subliminale, insito negli scheletri snodabili.

 

Casa di Giulia Felice. Pompei. Foto dal sito ufficiale di Pompei.

 

I posti in molti banchetti erano preassegnati dal padrone di casa e, una volta che tutti si erano accomodati, iniziava la cena. Gli invitati potevano portarsi degli amici ma costoro, non essendo stati invitati direttamente dal padrone di casa, dovevano sedersi su sedie o sedili e non sul letto triclinare. Per mangiare, come già accennato, ci si doveva semi-sdraiare, un’usanza proveniente quasi certamente dal mondo greco[5] e che aveva anche il particolare vantaggio di non far sentire lo stomaco oppresso dal troppo cibo e di favorire un pisolino tra una portata e l’altra nel caso di cene particolarmente lunghe e “faticose”. Quest’usanza di mangiare semisdraiati fece presa a Roma ma nelle campagne e al di là delle Alpi si continuava a mangiare seduti. Gli antichi Romani, per quanto ne sappiamo, non facevano un largo uso di emetici, ovvero di sostanze che facilitavano il rigetto per svuotarsi lo stomaco e ricominciare a mangiare nel caso di cene estremamente lunghe ed abbondanti. Era una pratica che forse, almeno a Roma, era diffusa solo fra pochi[6].

Iniziata la cena, ci si sdraiava poggiando il gomito sinistro e reggendo con la stessa mano il piatto mentre con la destra si prendeva il cibo. I cibi venivano serviti sempre già tagliati in piccoli pezzi in modo da facilitarne il consumo. Molte volte infatti si mangiava direttamente con le mani e a volte, a seconda delle portate, si usava un cucchiaio. Forchette[7] e coltelli erano usati solo in cucina e non per mangiare. Prima di iniziare la cena vera e propria alcuni schiavi aiutavano i commensali a lavare le mani e addirittura a volte anche i piedi.

 

Il Parassita. Tela di Roberto Bompiani, 1875.

 

E le donne? Qual era il loro ruolo nelle cene di alto livello? Durante l’età repubblicana non sempre partecipavano ai banchetti e, se lo facevano, tenevano una posizione defilata. Non svolgevano nemmeno gli onori di casa intrattenendo o accogliendo gli ospiti. Il vero protagonista del banchetto era infatti il padrone di casa che aveva organizzato l’evento e invitato i commensali alla sua abitazione. Talvolta comparivano al banchetto le donne più importanti che in questo modo, con la loro presenza, potevano essere immuni da battute o scherzi pesanti, o le donne di facili costumi la cui presenza aveva ovviamente tutt’altra funzione. La situazione però cambiò completamente in età imperiale dove invece le donne tendevano a comparire molto più frequentemente nei banchetti ritagliandosi un ruolo sempre più importante. Sembra comunque che le mogli degli invitati venivano spesso lasciate a casa… non si sapeva mai cosa poteva succedere durante la serata!

La cena aveva inizio con gli schiavi che distribuivano le prime portate. Nelle cene più lussuose e articolate, non solo c’erano molte portate ma i cibi, riflesso del gusto e dell’importanza del padrone di casa, erano raffinati, ricercati e costosi. Si iniziava con un antipasto, gustatio, che poteva includere uova, verdure, frutti di mare; il tutto accompagnato dal vino mielato, o mulsum. Si continuava, a seconda dei banchetti, delle occasioni e della ricchezza della cena offerta, con portate di carne, pesce, piatti elaborati e spettacolari, cacciagione o arrosti: era quella che veniva chiamata prima mensa. Questa parte della cena in molti casi non solo era estremamente elaborata ma era anche presentata in modo tale da suscitare ammirazione e stupore tra gli invitati. Si terminava, infine, con la secunda mensa, ovvero i dolci e la frutta. Alla fine del banchetto vero e proprio la serata veniva dedicata al brindisi con il vino.

 

Da una domus di Pompei: uova, uccelli e suppellettili in bronzo. Foto dal sito ufficiale di Pompei.

 

Prima del brindisi, nelle cene di un certo livello, il padrone di casa distribuiva ai suoi ospiti dei doni da portare via che potevano essere profumi, libri, spille, candelabri, lucerne o stoviglie: piccoli ricordi della bella serata trascorsa insieme. Poi gli ospiti si intrattenevano chiacchierando e socializzando mentre si gustava del vino. Di cosa si chiacchierava durante le cene? Quali erano gli argomenti di conversazione? Ovviamente il livello di conversazione dipendeva dalla cultura e dagli interessi del padrone e degli invitati ma anche negli ambienti più raffinati e colti non si discuteva solo di politica, retorica, filosofia, letteratura o poesia. Nella maggioranza dei casi infatti, poiché la cena era un momento di convivialità e spensieratezza, si tendeva a parlare di argomenti leggeri, frivoli e a volte anche lascivi. Uno degli argomenti preferiti erano le persone: i Romani infatti amavano intrattenersi “sparlando” di amici, conoscenti o personalità pubbliche. In particolare a Roma, una fonte inesauribile di conversazione era data dagli spettacoli nell’arena, nel circo o a teatro e, come si fa ancora oggi non solo in Italia ma in tante altre parti del mondo, si parlava molto anche del tempo, argomento spesso usato per “rompere il ghiaccio” e verificare la disponibilità dell’altro ad affrontare una conversazione che poteva vertere su altri temi.

Nelle dimore signorili che avevano anche la sala per il simposio, ovvero la parte della serata dedicata al bere, si facevano alzare i commensali e li si invitava ad andare in quest’altro ambiente per l’ultima parte della serata. Mentre gli invitati si intrattenevano nella sala del simposio, nel triclinio, dove la cena era stata appena consumata, gli schiavi si affaccendavano per pulire il pavimento dai resti dei cibi consumati. Era consuetudine infatti buttare in terra tutti gli avanzi e le parti non commestibili. Alla fine di una cena il pavimento del triclinio era ricoperto da scarti, lische di pesce, pezzi di pane, ossicini, pezzi di verdura, ortaggi, rifiuti vari etc. Gli artisti del passato rimasero affascinati da questo dettaglio, non proprio edificante per i nostri occhi, delle cene nelle case benestanti tanto da rappresentare in splendidi mosaici proprio quello che si sarebbe visto alla fine della serata: ovvero un “pavimento non spazzato”[8]. Se il padrone di casa aveva animali domestici, ad esempio dei cani, questi erano soliti finire gli avanzi da terra durante la cena.

 

Casa degli Amanti. Pompei. Foto dal sito ufficiale di Pompei.

 

Una consuetudine che si è persa nel tempo e che oggi verrebbe vista con orrore, era quella di ruttare alla fine del pasto. Per gli antichi Romani, infatti, il rutto rappresentava un modo per comunicare il proprio apprezzamento per quello che si era mangiato. Quello che invece molto probabilmente non era tollerato, erano le flatulenze. In molti casi si può immaginare come fosse difficile, specialmente nel caso di cene particolarmente abbondanti, riuscire a trattenersi e sicuramente c’era chi, nonostante la sconvenienza dell’atto, dava libero sfogo alle flatulenze. La dimostrazione che però ciò era vietato ci viene dall’intenzione dell’imperatore Claudio (41 – 54 d.C.), affetto guarda caso da aerofagia, di autorizzare con un apposito editto le flatulenze a tavola… Un editto che però, da quel che sappiamo, non vide mai la luce[9]. Durante i pasti guai inoltre a soffiare sulle pietanze troppo calde: era considerato infatti assolutamente disdicevole. Raffinata era invece l’usanza di prendere il cibo solo con la punta delle dita. Al riguardo era frequente che gli ospiti si sporcassero le mani: a questo inconveniente si ovviava o usando delle molliche di pane per pulirsi oppure dei tovaglioli che gli ospiti si portavano direttamente da casa. Questi tovaglioli potevano anche essere usati per portarsi il cibo avanzato a casa: una sorta di doggy-box di tanti secoli fa!

Durante il simposio, il protagonista, oltre ovviamente al vino, era il magister bibendi, estratto a sorte fra i commensali. Costui doveva decidere in onore di chi o di cosa bisognasse bere, la quantità di acqua da diluire nel vino e quanti brindisi si dovessero fare. Il vino si ‘allungava’ con l’acqua per diminuirne la gradazione alcolica[10]. Era una pratica comune e chi beveva vino puro senza averlo diluito con una certa quantità d’acqua era considerato un barbaro o un alcolista. Questa usanza era già in auge nel mondo greco dove anche i miti riflettevano la differenza tra bere vino in maniera moderata e un consumo sregolato e smodato dello stesso[11]. Durante questa parte finale della serata, nei banchetti più sontuosi ci potevano essere diversi tipi di intrattenimenti come danzatrici[12], flautisti, solisti o voci da camera, letture, attori comici, mimi, buffoni, acrobati, giullari o addirittura gladiatori. A volte era lo stesso padrone di casa che si esibiva nella lettura di versi o componimenti scritti da lui medesimo, cosa che non sempre era particolarmente gradita!

 

Orgia baccanale nell’antica Roma Stich, Abbildung, gravure, engraving : 1881

 

Il personale utilizzato durante la cena per servire e assistere gli ospiti era più o meno numeroso a seconda delle possibilità economiche del proprietario di casa. Si andava dagli schiavi giovani e avvenenti, impiegati durante il simposio per servire il vino, all’archimagirus, ovvero il cuoco, da cui dipendeva la buona riuscita della cena, al nomenclator, figura assimilabile a quella del nostro maggiordomo, che doveva imparare a memoria i nomi degli invitati per assistere il padrone di casa in caso di eventuali dimenticanze e assisteva gli ospiti nei loro spostamenti durante la cena.

Organizzare una cena, o meglio, un evento sociale di questo tipo non era alla portata di tutti. Mentre il resto del popolo mangiava in modo semplice e frugale, i ricchi potevano permettersi, di tanto in tanto, l’organizzazione di straordinarie cene che si protraevano fino a notte fonda e che ci dicono moltissimo sul gusto, le abitudini, i modi di fare, l’educazione di quel tempo lontano eppure ancora così vicino a noi.

NOTE

[1] Le Muse, divinità minori della mitologia greca, figlie di Zeus e Mnemosyne, erano nove ed erano considerate le “protettrici” delle arti. Non a caso infatti la parola “museo” indica il luogo caro alle muse, un luogo cioè dove l’arte viene protetta e ammirata.

[2] In età imperiale si diffuse anche un altro tipo di letto, arcuato, che poteva ospitare fino a otto commensali.

[3] Chiamati larvae conviviales.

[4] Famosissima locuzione tratta dalle Odi di Orazio (1, 11, 8). La traduzione letterale dovrebbe essere “cogli il giorno” ma è più diffusamente e liberamente tradotta con “cogli l’attimo”. È un invito a godere i beni della vita e ciò che si ha dal momento che il futuro non è mai prevedibile. Una delle locuzioni più fraintese ma anche tra le più profonde del mondo romano.

[5] L’usanza di mangiare semisdraiati era già adottata dagli Etruschi ben prima della diffusione in ambito romano a partire dal III e II sec. a.C. Ne sono prova le urne cinerarie, i sarcofagi e le pitture tombali dove i defunti sono rappresentati semisdraiati nella posizione del banchetto.

[6] A contribuire alla popolarità di questa pratica nell’immaginario collettivo fu una formula sarcastica di Seneca: vomunt, ut edant; edunt, ut vomant, ovvero “vomitano per mangiare e mangiano per vomitare”. Seneca, Ad Helv. 10,3.

[7] La forchetta verrà usata come posata a tavola soltanto a partire dall’alto medioevo.

[8] Il termine tecnico greco che definisce questo soggetto è asarotos oikos. Dall’Asia Minore si diffonde a Roma ed ebbe grande successo perché dava l’idea della ricchezza e dell’opulenza della casa.

[9] Svetonio, Le Vite dei Cesari, Claudio, 32.

[10] Il vino prodotto dai Romani aveva una gradazione alcolica più alta rispetto ai moderni vini che veniva smorzata proprio aggiungendo acqua. Una delle ragioni dell’alta gradazione alcolica era legata al fatto che l’uva in alcuni casi veniva fatta crescere in terra. Ciò faceva sì che il sole, colpendo gli acini disposti in terra, ne aumentasse la gradazione alcolica.

[11] Basti pensare al racconto mitologico di Ulisse e Polifemo, dove il ciclope Polifemo, ubriacatosi di vino puro e caduto in un sonno profondo, permetterà così ai suoi prigionieri, prima della fuga, di realizzare l’arma che lo renderà cieco.

[12] Molto popolari e richieste erano le danzatrici del ventre.

Bibliografia

AA.vv., Nutrire l’Impero, storie di alimentazione da Roma e Pompei, Roma, 2015.

André J., La cucina e l’alimentazione nell’antica Roma, Gorizia, 2016.

Ferrari A., La cucina degli dei, Torino, 2014.

Weeber K.W., Vita quotidiana nell’antica Roma, Roma, 2003.

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Mauro Poma

Esperto conoscitore di Roma e guida turistica abilitata di Roma e provincia, da dieci anni tiene conferenze e lezioni presso i comitati della società Dante Alighieri in Olanda, la più prestigiosa associazione culturale per la diffusione della cultura italiana nel mondo (ad Amsterdam, Rotterdam, L’Aia, Eindhoven, Groningen, Haarlem, Enschede, Dordrecht e altri). Già laureato in Scienze Politiche, quest’anno conseguirà la sua seconda laurea in Storia e Conservazione del Patrimonio Artistico e Archeologico. È autore del saggio Alla scoperta del Colosseo, edito da Edizioni Helicon, Arezzo, 2016. Lavora come guida turistica a Roma ed organizza visite guidate per gruppi o singoli alla scoperta della Città Eterna.

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