Il nome di Jean François Champollion ci riporta subito alla scrittura geroglifica, a quel momento in cui il geniale francese riuscì a mettere a frutto l’enorme mole di informazioni che negli anni aveva acquisito, ridando voce alle “parole sacre” vergate o scolpite migliaia di anni fa lungo le rive del Nilo. Ma Champollion, Le Jeune, come si firmava per distinguersi dal fratello, non era solo uno studioso dall’indiscusso rigore, ma anche una “penna” intrisa di delizioso e pungente sarcasmo. Leggendo la storia della sua vita si scopre ad esempio che nel liceo di Grenoble, che pure odiava con tutto sé stesso, era tra gli animatori dei circoli culturali degli studenti e che è stato autore di composizioni teatrali satiriche andate in scena nei salotti aristocratici della città.
Quando Napoleone Bonaparte fu esiliato all’Elba e salì al trono Luigi XVIII, Champollion compose dei testi satirici contro il nuovo sovrano sull’aria di canzonette popolari. A Grenoble divennero talmente celebri che le autorità si misero sulle tracce dell’autore, che per fortuna – anche nostra – non si era firmato restando “impunito”. Il 6 giugno del 1824 Jean François arriva a Torino con il preciso intento di testare e perfezionare la sua geniale intuizione sull’enorme mole di materiale epigrafico presente nella collezione piemontese, ma fin da subito si scontra con Giulio Cordero di San Quintino, al quale era stata affidata la catalogazione della collezione acquistata dal Drovetti. Il disaccordo era pressoché totale: da chi dovesse custodire le chiavi a cosa utilizzare come supporto per gli antichi papiri. Anche la statua di Seti II, che oggi possiamo ammirare in tutto il suo splendore all’interno del Museo Egizio di Torino, fu motivo di scontro tra i due studiosi e il francese ne approfittò per far nascere una brillante, sarcastica e immaginaria lettera, che lo stesso sovrano egizio avrebbe scritto in prima persona a “Sua Altezza il Re di Sardegna”. La statua colossale, alta più di 5 metri, durante le fasi di allestimento del Museo Egizio era stata collocata nel cortile interno, all’aperto, ricoperta di paglia per proteggerla. Champollion prese spunto da questa situazione di “disagio” del colosso in pietra e scrisse il componimento che segue, chiamando questo re Osymandias, nome che Diodoro Siculo nella sua Bibliotheca Historica, attrbuì a Ramesse II, nonno di Seti II, traducendo in greco il suo prenome: User Maat Ra.
Due parole sulla statua e sul re.
Come già detto si tratta del sovrano Seti II, nipote del grande e più noto Ramesse II. Salì al trono intorno al 1200 a.C., in un periodo di grande confusione politica sia interna che estera, dovendo probabilmente riprendersi la corona lottando contro un usurpatore, Amenmes, principe di un ramo secondario.
La sua mummia fu salvata dai saccheggi grazie all’azione dei sacerdoti della XXI dinastia (1070-720 a.C. circa), che avevano ricoverato, oltre la sua, le mummie di Thutmosi IV (1397-1387 a.C. circa), Amenhotep III (1387-1348 a.C. circa), Merenptah (1212-1202 a.C. circa), Siptah (1195-1189 a.C. circa), Ramesse IV (1153-1146 a.C. circa), Ramesse V (1146-1143 a.C. circa), Ramesse VI (1143-1136 a.C. circa) e il corpo di una donna senza nome, all’interno della KV34 ovvero la tomba di Amenhotep II (1424-1398 a.C. circa).
La statua raggiunge la ragguardevole altezza di 5.16 mt e poggia su di un piedestallo rettangolare ricavato nel medesimo blocco di arenaria. Porta sul capo la corona “Atef” ornata lateralmente da due piume di struzzo. Disteso lungo il corpo fino ad appoggiarsi alla spalla sinistra, vi è uno stendardo regale che terminava con un’immagine di Seth, oggi andata perduta, la cui presenza è confermata dalle iscrizioni poste lungo lo stendardo stesso. Considerando che – ad esclusione di un’iscrizione posta sul dorso della statua – tutte le immagini di Seth sono state abrase, è probabile che la rottura della testa dello stendardo sia stato un atto deliberato.
La statua presenta diverse iscrizioni che non è qua il caso di prendere in esame, ma che fanno parte di un repertorio consueto, che lega il re ad alcune divinità ed elenca la sua titolatura reale.
A titolo di curiosità citiamo le iscrizioni “moderne” presenti sulla parte superiore dello zoccolo, incise da alcuni tra i più importanti protagonisti del commercio ottocentesco di antichità egizie, che all’epoca era legale e senza un controllo efficace su ciò che veniva messo in vendita e che ha fortemente contribuito alla formazione delle grandi collezioni museali europee.
La statua gemella è oggi custodita al Louvre di Parigi.
“DECOUVERT PAR. j. RIFAUD / sculpteur . au . SERVICE / DE . MR . DROVETTI / A Thebès . 1818”
“FORT FRA EGYBTEN / TIL LIVORNO . I . SKIBET / TRONHIEN cap n. RICHELIEU / 1819”.
Ed ecco lo scritto di Jean François Champollion.
Torino, 22 dicembre 1824 Sire, Un vecchio proverbio egiziano dice: “Pietra che ruzzola non raccoglie muschio”. Ne ho fatto l’esperienza, triste e molto crudele. Quando su proposta di M. Drovetti, che mi vantava la cortesia e la civiltà dell’Europa, acconsentii a lasciare Tebe, la mia cara patria, per vedere i paesi dell’Occidente, dovetti (poiché il viaggio non poteva essere fatto in altro modo) accettare di essere messo in una nave in maniera molto scomoda e molto poco conveniente sia al mio rango sia al mio illustre casato. Una sola speranza addolciva la noia della traversata, quella degli onori che mi spettavano senza dubbi, in mezzo a popoli che devono, in massima parte, i lumi di cui si vantano all’antica nazione che ho governato a lungo e con tanta gloria. Sopportai dunque con pazienza e il mal di mare e i continui disgusti che mi causavano i miei compagni di viaggio, i quali fingevano d’ignorare con quale personaggio avevano l’onore di viaggiare. Arrivo a Livorno, e mi si alloggia in una specie di magazzino. Mi si lascia laggiù molti mesi, senza neppure domandarsi se il locale poteva o no convenirmi. Cento volte avrei perso la pazienza e tentato qualche colpo impetuoso – perché nella mia qualità di conquistatore, io sono molto vivace, benché posato in apparenza – se i miei compatrioti Thutmosi e Amenhotep, personaggi assai flemmatici di natura e rinchiusi nella mia stessa corte, non mi avessero convinto a starmene in pace, aspettando gli avvenimenti. Quanto a Sesostri, che ci trovai egualmente, il povero ragazzo era così malato e così spezzato dal viaggio che aveva una ragione doppia di non occuparsi che di sé. Grazie a questi buoni compagni, non sono morto di noia, perché Thutmosi mi raccontava le vecchie storie del suo tempo, e Amenhotep che, sotto il nome di Memnon, si è fatto una reputazione molto buona come musicista, mi cantava di quando in quando una delle graziose arie che, nella piana di Tebe, facevano un tempo correre ai suoi piedi i Greci e i Romani. Ma Sua Maestà può figurarsi quale fu il mio dolore quando restai solo e vidi partire successivamente per la capitale non soltanto tutti i faraoni miei amici, ma persino tre o quattro piccoli Tifoni, che avrebbero almeno potuto sollevare la mia solitudine con la loro faccia e il loro carattere grottesco, benché in fondo siano gentuccia molto modesta e persone di assai cattiva compagnia. Restai pietrificato da questo affronto: nessun lamento mi uscì di bocca, ma, immobile e con l’occhio fisso, mi divoravo il cuore. Come si diceva una volta nel mio paese. In breve, non mi mossi più fino al giorno in cui m’imbarcarono per Genova. Laggiù dovetti fare ancora una lunga stazione, abbandonato senza onore accanto a una delle porte, ma mi feci forte contro la disgrazia; ero già indurito dalle sofferenze passate, e seppi, aspettando che Vostra Maestà mi chiamasse nella sua città regale, sopportare con freddezza le mancanze di rispetto di un popolo grossolano, al quale la mia faccia e il mio abbigliamento non si imponevano per niente. Feci di più: conservai la mia impassibilità, nessun movimento di sdegno solcò il mio viso neppure quando un certo sapiente del paese venne da me, pretendendo di conoscermi, e senza saper vedere sulla mia fronte il diadema regale e le insegne del figlio primogenito di Amon osò sostenere che io non ero che una specie di intendente o sotto-intendente, e sostenere che io mi chiamavo Ozial, nome sconosciuto all’interno Egitto, io che sono il Re del popolo obbediente, il sole guardiano dei mondi, il figlio del sole, Osymandias. In mezzo a tali tormenti mi strascinarono finalmente, disteso sopra un carro volgare, sul quale mi lasciai mettere senza la minima resistenza, pensando che alla fin fine era l’ultima delle prove che mi erano state riservate. Arrivai a Torino con questo triste equipaggio, e, invece di condurmi direttamente nel palazzo di Vostra Maestà, mi scaricarono nella corte dell’Accademia delle Scienze, dove seppi però, arrivando, che avevano parlato di me e che anche il mio venerabile nome era stato pronunciato. Supposi dunque anche che era stato fino allora nell’intenzione della Vostra Maestà che avessi viaggiato in incognito; mi aspettavo da un momento all’altro che mi rendessero finalmente gli onori che mi sono dovuti. 15 Una folla di persone mi circonda, in effetti; la corte brilla dello splendore delle fiaccole…ma mi passarono senza rispetto una corda al collo, e mio malgrado (perché confesso che facevo il pesante) mi spinsero diritto contro un muro e sopra un grande piedistallo, senza fare attenzione al fatto che ne avevo portato uno con me, che non mi aveva lasciato dalla mia partenza da Tebe. In una posizione così imbarazzante, esposto continuamente agli sguardi di un pubblico al quale le mie insegne regali non sempre imponevano rispetto, aspettavo da molti mesi che la Vostra Maestà mettesse un termine alle mie sofferenze. Avevo, un più, il dispiacere di vedere, grazie alla mia alta statura, attraverso le finestre vicine, i miei antichi compagni di viaggio in una situazione molto preferibile alla mia. Vedevo per esempio Moeris, chinato su una specie di teatro, proprio come i nostri ierogrammati quanto raccontano le metamorfosi di Osiri al popolo radunato nei templi; più in là, Sesostri, completamente ristabilito delle sue ferite e pavoneggiandosi in mezzo a una vasta sala sopra uno zoccolo anche troppo alto per la sua taglia. Vedevo dei poveri diavoli già chiusi sotto centinaia di metri di bende e già sistemati molto caldamente in due o tre casse, ricoperti, alla faccia mia, da un eccesso di cure, da una bella veste nuova di tela gialla bordata di galloni verdi. Vedevo infine, dal mio scomodo osservatorio, una tale piccola borghese di Tebe, che non avrei mai onorato di un semplice sguardo, accolta con galanteria raffinata e graziosamente chiusa, non so perché, in una piccola casa di vetro. Ma non è abbastanza. In mezzo a queste mortificazioni così cocenti per il mio amor proprio, si è venuti, Sire, a mettere il colmo a tanti oltraggi. Invece di condurmi in un palazzo suntuoso, ora che la temperatura di queste contrade diventa di un’asprezza per me finora sconosciuta, vengo lasciato in un cortile, esposto a tutti i rigori, nella solitudine più completa. Ed è questo soprattutto che mi decide a ricorrere finalmente alla giustizia e alla pietà di Vostra Maestà. Invece di proteggermi dalle ingiurie dell’aria dandomi un bel vestito giallo bordato di verde come a qualche mio collega e perfino a qualche gatto e altri animali che non si aspettano davvero attenzioni così delicate, mi coprono grossolanamente sotto mucchi di paglia. Mi spiccio a profittare del momento in cui questa ridicola copertura mi copra ancora solo fino al mento per aprire finalmente la bocca e lamentarmi altamente di una tale indegnità. Come! Il Faraone che ha conquistato la Battriana alla testa di 700.000 uomini, che elevò l’edificio più meraviglioso di Tebe, non sarà più ormai che un Re di paglia, o per esser precisi, un re impagliato? No, Sire, la Vostra Maestà non lo sopporterà. Ella conosce adesso la lunga serie dei miei triboli: mi appello alla sua equità. Devo essere trattato da Re. Questa parola dice tutto quello che mi aspetto. Domando anche, come riparazione indispensabile, che l’inventore del ridicolo costume che mi è affibbiato, sia lui stesso impagliato, per essere immediatamente deportato al Museo di Storia Naturale. Questa sarà giustizia.