Lo scavo in corso di una delle trincee di Oued Beht. Foto di Giulio Lucarini. © Archivio OBAP

Un importante progetto di ricerca scientifica internazionale, frutto della collaborazione tra l’Istituto di Scienze del Patrimonio Culturale del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR-ISPC), l’Associazione Internazionale di Studi sul Mediterraneo e l’Oriente (ISMEO), l’Institut National des Sciences de l’Archéologie et du Patrimoine (INSAP) di Rabat e il McDonald Institute for Archaeological Research dell’Università di Cambridge, ha recentemente portato alla luce l’insediamento neolitico di Oued Beht, situato nei pressi della cittadina di Khémisset, in Marocco. 

Questo paese, situato all’estremo nord-ovest del continente africano, fa parte del Maghreb occidentale, e occupa una posizione geografica strategica che lo collega all’Oceano Atlantico, alla catena montuosa dell’Atlante, al deserto del Sahara e al Mediterraneo occidentale. La potenzialità connettiva del Maghreb è chiara già a partire dall’Olocene antico, con evidenze di mobilità di gruppi di cacciatori-raccoglitori e, successivamente, di comunità pastorali, culminando nella diffusione di gruppi neolitici dalla Penisola Iberica in Africa nordoccidentale (VI-V millennio a.C.).

Mappa dell’Africa nord-occidentale. © Cambridge University Press

Anche in epoche successive, il Maghreb ha continuato a dimostrare il suo ruolo di crocevia culturale, specialmente tra l’arrivo dei primi coloni fenici agli inizi del I millennio a.C. fino all’età islamica. Tuttavia, un’analisi approfondita del periodo compreso tra IV e I a.C. era assente, nonostante l’ampia documentazione riguardante le culture del Levante, dell’Egeo, della Valle del Nilo e della penisola iberica. Durante questa fase, il Maghreb doveva costituire un nodo fondamentale in una rete di scambi che lo collegava alla penisola iberica, come dimostrano sia la presenza di manufatti realizzati con materiali esotici di origine africana (ad esempio, l’avorio e l’uovo di struzzo), sia gli studi genetici che rivelano tracce di ascendenze africane in siti della Penisola iberica.

In alto il Marocco settentrionale; in basso l’area del sito evidenziata a colori e il fiume Oued Beht visti da sud-est. Carta e fotografia di Toby Wilkinson. © Cambridge University Press

Le indagini dell’Oued Beht Archaeological Project (OBAP), dirette da Giulio Lucarini (CNR-ISPC), Youssef Bokbot (INSAP) e Cyprian Broodbank (Università di Cambridge), hanno preso avvio nel 2021. I primi rinvenimenti nel sito risalgono agli anni ’30 del secolo scorso, quando furono scoperte oltre mille accette in pietra levigata, molte delle quali sono conservate al Museo di Storia e Civiltà di Rabat. Nel 2005, Youssef Bokbot avviò la prima indagine sistematica nell’area.

Il Dott. Giulio Lucarini insieme all’Ambasciatore d’Italia in Marocco Armando Barucco. Sullo sfondo il fiume Oued Beht. Foto di Moad Radi. © Archivio OBAP

L’insediamento neolitico di Oued Beht si estende su una superficie di 10 ettari, paragonabile a quella della città di Troia nell’Antica Età del Bronzo. Le ricerche condotte sul sito hanno previsto l’impiego di metodologie diverse, tra cui ricognizioni sul campo, prospezioni geofisiche, rilievi tramite droni e scavi stratigrafici, insieme alle analisi di manufatti archeologici e campioni di piante e animali.

Fasi della ricognizione condotta sul sito. Foto di Giulio Lucarini. © Archivio OBAP

Risalente al Neolitico finale (3400-2900 a.C.), il sito ha restituito importanti testimonianze dell’attività umana in questa parte del Nord Africa, attualmente uniche per questa fase cronologica a ovest della più nota Valle del Nilo. Tra le evidenze emerse si segnalano numerose fosse per l’immagazzinamento di derrate alimentari, confermate dai resti carbonizzati di orzo, frumento e legumi domestici, insieme a pistacchio e olivo selvatici. I resti faunistici includono capra, pecora, bovino e suino domestici, molti dei quali presentano segni di macellazione, suggerendo che questa pratica avvenisse localmente. Tra i reperti materiali figurano strumenti in pietra levigata, come accette, grandi pietre da macina, manufatti in pietra scheggiata e vasi in ceramica – tra cui esemplari dipinti – utilizzati per preparare, conservare e consumare alimenti.

La quantità e la varietà dei reperti litici e ceramici, quasi 20.000 in totale, offrono dati senza precedenti per questa area del continente africano, al di fuori della Valle del Nilo.

Strumenti litici da Oued Beht. Foto di Lorena Lombardi & Moad Radi. © Cambridge University Press

Le ricerche condotte fino a oggi e gli studi attualmente in corso sui resti organici e inorganici hanno consentito di collocare il villaggio di Oued Beht nella fase finale del Neolitico, rivelando come la produzione agricola, la lavorazione e lo stoccaggio di alimenti vegetali, nonché l’allevamento e la macellazione di animali domestici, fossero elementi centrali nell’economia della comunità. Tuttavia, il contesto sociale e culturale del Maghreb tra la fine del IV e gli inizi del III millennio a.C. rimane ancora da esplorare, affinché si possa comprendere meglio il ruolo di Oued Beht all’interno del panorama più ampio della tarda preistoria del Mediterraneo occidentale.

La ceramica della fase finale del Neolitico rinvenuta a Oued Beht. Foto di Rafael Laoutari, Rafael Martínez Sánchez & Moad Radi. © Cambridge University Press

Oued Beht Archaeological Project è finanziato dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (MAECI), dal Ministero dellUniversità e della Ricerca (MUR), dal Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), dall’Università di Cambridge e dal British Institute for Libyan and Northern African Studies (BILNAS).

Il team all’interno della grotta di Ifri n’Amr o’Moussa. © Archivio OBAP

Fonti:

Oued Beht Archaeological Project (OBAP)

Oued Beht, Morocco: a complex early farming society in north-west Africa and its implications for western Mediterranean interaction during later prehistory, in Antiquity, Cambridge University Press 2024, pp. 1-20, open access

Alba a Oued Beht. Foto di Giulio Lucarini. © Archivio OBAP

 

Gallery da © Archivio Fotografico Oued Beht Archeological Project

La visita del Direttore dell’INSAP Prof. Abdeljalil Bouzouggar a Oued Beht. Foto di Moad Radi. © Archivio OBAP
Accetta in pietra levigata rinvenuta a Oued Beht. Foto di Giulio Lucarini. © Archivio OBAP
Moad Radi mostra una pietra da macina. Foto di Giulio Lucarini. © Archivio OBAP
Fasi della ricognizione condotta sul sito. Foto di Giulio Lucarini. © Archivio OBAP
Il team all’interno della grotta di Ifri n’Amr o’Moussa. Foto di Giulio Lucarini. © Archivio OBAP
Piccoli visitatori sul sito di Oued Beht. Foto di Giulio Lucarini. © Archivio OBAP
Tramonto a Oued Beht. Foto di Giulio Lucarini. © Archivio OBAP
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Chiara Lombardi

Laureata in Archeologia Orientale presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” con una tesi magistrale in Archeologia Egiziana dal titolo “Iside nei testi funerari e nelle tombe del Nuovo Regno: iconografia e ruolo della dea tra la XVIII e la XIX dinastia” (2013), ha conseguito un master di primo livello in “Egittologia. Metodologie di ricerca e nuove tecnologie” presso la medesima Università (2010-2011). Durante il master ha sostenuto uno stage presso il Museo Egizio de Il Cairo per studiare i vasi canopi nel Nuovo Regno (2010). Ha partecipato a diversi scavi archeologici, tra i quali Pompei (scavi UniOr – Casa del Granduca Michele, progetto Pompeii Regio VI, 2010-2011) e Cuma (scavi UniOr – progetto Kyme III, 2007-2017). Inoltre, ha preso parte al progetto Research Ethiopic language project: “Per un nuovo lessico dei testi etiopici”, finanziato dall’Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente e dal progetto PRIN 2005 “Catene di trasmissione linguistica e culturale nell’Oriente Cristiano e filologia critico testuale. Le problematiche dei testi etiopici: testi aksumiti, testi sull’età aksumita, testi agiografici di traduzione” (2006-2007). Ha collaborato ad un progetto educativo rivolto ai bambini della scuola primaria per far conoscere, attraverso sperimentazioni laboratoriali, gli usi e i costumi dell’antico Egitto e dell’antica Roma (2014-2015). È stata assistente di ricerca presso la Princeton University (New Jersey) per “The Princeton Ethiopian, Eritrean, and Egyptian Miracles of Mary digital humanities project (PEMM)” (2020-2021). Ricercatrice indipendente, attualmente è anche assistente di ricerca per il Professor Emeritus Malcolm D. Donalson (PhD ad honorem, Mellen University). Organizza e partecipa regolarmente a diverse attività di divulgazione, oltre a continuare a fare formazione. Collabora con la Dott.ssa Nunzia Laura Saldalamacchia al progetto Nymphè. Archeologia e gioielli, e con la rivista MediterraneoAntico, occupandosi in modo particolare di mitologia. Appassionatasi alla figura della dea Iside dopo uno studio su Benevento (Iside Grande di Magia e le Janare del Sannio. Ipotesi di una discendenza, Libreria Archeologica Archeologia Attiva, 2010), ha condotto diversi studi sulla dea, tra cui Il Grande inno ad Osiride nella stele di Amenmose (Louvre C 286) (Master di I livello in “Egittologia. Metodologie di ricerca e nuove tecnologie”, 2010); I culti egizi nel Golfo di Napoli (Gruppo Archeologico Napoletano, 2016); Dal Nilo al Tevere. Tre millenni di storia isiaca (Gruppo Archeologico Napoletano, 2018 – Biblioteca Comunale “Biagio Mercadante”, Sapri 2019); Morire nell’antico Egitto. “Che tu possa vivere per sempre come Ra vive per sempre” (MediterraneoAntico 2020); Il concepimento postumo di Horus. Un’ analisi (MediterraneoAntico 2021); Osiride e Antinoo. Una morte per annegamento (MediterraneoAntico 2021); Culti egiziani nel contesto della Campania antica (Djed Medu 2021); Nephthys, una dea sottostimata (MediterraneoAntico 2021). Sua è una pubblicazione una monografia sulla dea Iside (A history of the Goddess Isis, The Edwin Mellen Press, ISBN 1-4955-0890-0978-1-4955-0890-5) che delinea la sua figura dalle più antiche attestazioni nell’Antico Regno fino alla sua più recente menzione nel VII d.C. Lo studio approfondisce i diversi legami di Iside in quanto dea dell’Occidente e madre di Horus con alcune delle divinità femminili nonché nei cicli osiriaco e solare; la sua iconografia e le motivazioni che hanno portato ad una sempre crescente rappresentazione della dea sulle raffigurazioni parietali delle tombe. Un’intera sezione è dedicata all’onomastica di Iside provando a delineare insieme al significato del suo nome anche il compito originario nel mondo funerario e le conseguenti modifiche. L’appendice si sofferma su testi e oggetti funerari della XVIII dinastia dove è presente la dea.

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