La concia delle pelli
Contesti archeologici e utilizzo nel mondo arabo-islamico

La concia è un trattamento che serve a conservare, evitando il processo di putrefazione, e a rendere lavorabili le pelli animali. Infatti la pelle è un materiale organico, costituito in buona parte da proteine che, se esposte agli agenti atmosferici, degradano facilmente e velocemente; occorre quindi renderle impermeabili modificandone la loro struttura proteica.

Le pelli degli animali viventi hanno tre zone principali: la parte esterna chiamata epidermide, uno strato sottile composto da strati di cellule disposte in fila; una parte centrale chiamata “corio” o derma che rappresenta l’ottantacinque per cento della pelle ed è la parte più interessante per la concia; infine lo strato sottocutaneo detto strato adiposo che contiene una notevole quantità di grassi e viene eliminato nelle fasi iniziali della concia. La parola “cuoio” deriva dal latino corium, cioè corio, proprio perché rappresenta la parte che ha un valore commerciale in quanto interessata dal processo conciario 1.

Subito dopo l’abbattimento dell’animale bisogna occuparsi della conservazione proprio per evitare lo sviluppo di batteri e microrganismi che portano alla putrefazione.

La preparazione alla concia avviene attraverso operazioni di riviera, quindi spesso in prossimità di corsi d’acqua, in quanto necessitano proprio di acqua; infatti le pelli vengono reidratate, lavate e pulite, poi vengono eliminati i tessuti residui attraverso la scarnatura, successivamente viene eliminato il pelo e lo strato di epidermide immergendole in una soluzione alcalina o in urina. La pelle risulta ancora putrescibile.

I metodi utilizzati per ottenere delle pelli resistenti ma non conciate sono la salatura con cloruro di sodio, che aiuta ad eliminare il contenuto di acqua presente, oppure l’essiccamento all’aria.

Per ottenere il cuoio conciato si passa invece al processo conciario vero e proprio.

La concia al vegetale o con tannini vegetali (che danno un colore marrone) è quella più antica e ancora oggi è usata per la concia di pelli destinate alla produzione di suole, guardoli, cinghie, fodere, selleria. Questo sistema di concia prevede l’uso di sostanze organiche che sono contenute nei legni, nelle cortecce, nelle foglie, nei frutti dai quali si ricavano le sostanze tanniche.

La concia con escrementi animali prevedeva l’immersione in escrementi preferibilmente di cane o di piccione così da produrre enzimi capaci di aggredire le fibre e ammorbidire il tessuto.

Un altro tipo di concia avveniva con il cervello che garantiva i risultati migliori producendo pelle scamosciata di altissima qualità e flessibilità; il cervello venne sostituito anche con tuorli di uovo, olio.

La concia all’olio viene ancora effettuata su pelli ovine, nonché su pelli di camoscio, cervo, daino, antilope, e, prima di effettuare la concia, viene asportato lo strato superficiale della pelle per favorire la penetrazione degli oli e per ottenere un cuoio morbido e assorbente in modo uguale sulle due superfici. L’olio di fegato di merluzzo è quello migliore per la lavorazione dello scamosciato ma vengono usati anche quelli di foca e di balena.

Le pelli così ottenute dai vari tipi di conciatura venivano infine rifinite.
La lavorazione delle pelli è un processo che si sviluppò durante gli anni e in ogni civiltà, infatti ha origini antichissime: le testimonianze archeologiche più antiche che descrivono una procedura per la lavorazione risalgono ad oltre 9000 anni fa.

Nell’antichità l’uomo intuì che le pelli degli animali uccisi potevano essere impiegate per altri scopi e l’Australopithecus habilis, che abitava nell’Africa orientale due milioni di anni fa, fu il primo ad utilizzare in modo sistematico la pelle animale2.

Già in tempi antichi l’uomo si rese conto che le pelli esposte al fumo o immerse in acqua ricca di materia vegetale in decomposizione (che contiene dosi variabili di tannini) duravano di più e non subivano il processo di putrefazione tipico della pelle fresca. Fu così che i nostri antenati idearono uno dei primi metodi per la concia della pelle, che prevedeva l’immersione in acqua ricca di tannini e l’uso di oli vegetali.

In Mesopotamia durante il terzo millennio a.C. l’utilizzo di pelli si perfeziona grazie all’impiego di sostanze prima vegetali e poi anche minerali. Gli strumenti utilizzati, i processi di produzione e le installazioni per la lavorazione hanno raggiunto piena efficienza nell’Egitto faraonico ed è proprio in questo periodo che si acquisiscono le tecniche per la conciatura e le tecniche di lavorazione3.

Uno dei primi ritrovamenti archeologici di pelle “conciata” (non attraverso il vero e proprio processo di conciatura bensì tramite essiccamento e salatura) proviene dall’antico Egitto, e alcune pitture parietali all’interno di tombe datate tra la quinta e la ventiseiesima dinastia mostrano le varie operazioni legate alla lavorazione; inoltre oggetti in cuoio sono emersi da molte altre tombe come quella di Tutankhamon4.

Egitto, processo di lavorazione delle pelli da una tomba del XV secolo a.C. / ph. KITE & THOMSON 2006

Anche i Babilonesi lavoravano le pelli animali, infatti il loro re Hammurabi nel suo Codice di Leggi del 2000 a.C. circa ci informa sull’industria di produzione del cuoio che era ben organizzata: nell’articolo 274 si dice che il salario dei conciatori era standardizzato e regolato dalla legge. Nelle tavolette in cuneiforme sono anche resi in dettaglio materiali e processi usati dai conciatori babilonesi. Un esempio tradotto da una tavoletta datata al 1000-600 a.C. trovata a Carchemish, in Mesopotamia, ci informa sulle pelli che venivano messe a mollo in farina, acqua, birra e vino5.

Lo sviluppo di città-stato e lo slittamento verso un’ideale di vita urbana condussero a un incremento di domanda per scopi civili e militari. La concia passò quindi da essere un’attività su piccola scala a essere un’occupazione organizzata su base industriale. I primi testi sumeri ed egiziani indicano infatti che circa 5000 anni fa fiorì un complesso commercio di pellame attraverso il Vicino Oriente. Questo commercio continuò e si espanse fino a quando, nel periodo della Grecia classica, i conciatori non erano una buona parte della comunità, influente dal punto di vista politico, e un singolo stabilimento al Pireo specializzato nella manifattura degli scudi in pelle impiegava circa centoventi schiavi.

Anche i Romani riconobbero l’importanza del pellame soprattutto per scopi militari. Il cuoio era infatti richiesto come tributo dalle legioni e sembra che il bestiame fosse allevato per la pelle piuttosto che per la carne.

Un’idea delle tecniche della concia usate ai tempi dei romani possono essere dedotte dai resti della conceria scavata a Pompei nel 1873 da August Mau e rinvenuta nei pressi di Porta Stabia. Si tratta della più antica conceria al mondo. L’impianto fu scavato integralmente da Amedeo Maiuri negli anni cinquanta del XX secolo e fu installato intorno alla metà del I secolo d.C. sui resti di un’abitazione precedente. Dopo il terremoto del 62 d.C. l’impianto artigianale fu ristrutturato nello stato attuale assumendo maggiore funzionalità. La planimetria è semplice e, sia la preparazione chimica per la conciatura che le operazioni di concia stessa, erano svolte in questo complesso. Il laboratorio dove si conciavano le pelli era installato sotto un porticato diviso in scomparti. Era presente un banco in pietra per scuoiare gli animali. I prodotti chimici erano preparati in una vasca nel giardino colonnato connessa all’edificio principale tramite un canale di scolo lungo il muro e attraverso due piccoli buchi che conducevano a tre brocche in ceramica su un lato e a un bacino circolare sull’altro lato. Nella zona retrostante si trovavano quindici vasche circolari in muratura, rivestite di cocciopesto, con foro di carico e scarico. Dodici di esse, più grandi, venivano usate per la concia al vegetale di pelli grandi e tre più piccole per quella all’allume di rocca.

Nei pressi dell’officina coriariorum scorreva a quel tempo il fiume Sarno ed è probabile che una diramazione giungesse proprio fino alla conceria.

Dall’inizio del periodo medievale fino alla metà del XVIII secolo l’industria della concia fu seconda per importanza solo all’industria tessile della lana.

Le concerie dell’antichità erano generalmente relegate ai margini degli insediamenti urbani, ma per quanto fossero repellenti, soprattutto per il fetore, esse svolgevano almeno un paio di ruoli fondamentali per l’intera comunità: producevano cuoio e pelle, indispensabili per la vita quotidiana, e contribuivano allo smaltimento dei liquami cittadini riciclando urina e feci.

Per molti secoli la tecnologia conciaria è rimasta praticamente invariata, con l’uso quasi soltanto di acqua, calce, tannini vegetali e grassi animali (solo piccole quantità di pelli erano conciate con allume ottenendo un cuoio bianco ma non resistente all’acqua) e tanta attività manuale.

Sebbene in questo campo la civiltà islamica avesse ereditato le competenze dal Vicino Oriente, per secoli la tecnologia della conciatura fiorì e si sviluppò notevolmente grazie anche ai fondamentali contributi apportati dagli artigiani musulmani.

L’industria del cuoio fiorì in molti paesi islamici divenendo un’importante merce di esportazione. Lo Yemen in particolare, così come al-Ta’if nell’Higiaz (in Arabia Saudita), erano importanti centri; Il Cairo era noto per il suo commercio e la sua industria manifatturiera. Sembra che tutte le maggiori città islamiche avessero la loro industria del cuoio.

Oggi, come in tempi molto antichi, un’area molto industrializzata per la conciatura delle pelli è il nord Africa, in particolare la regione marocchina.

A partire dall’ IX secolo, i conciatori islamici adoperavano sostanzialmente tre processi fondamentali per la loro attività, ed erano applicati sia separatamente sia in combinazione tra loro: la concia vegetale, la concia minerale o “concia all’allume” e quella all’olio o “scamosciatura”.

Il più importante processo di conciatura era quello fatto con l’uso di tannini vegetali e in alcuni manuali del muhtasib (una sorta di supervisore dei prodotti che venivano commerciati) sappiamo che il qaraz, cioè la mimosa nilotica che proveniva dallo Yemen, veniva prediletta rispetto alla galla del nocciolo, ed era utile soprattutto per conciare la pelle di capra. Venivano poi utilizzati altri prodotti vegetali come il rhus (il somacco).

La concia minerale con allume era importante nell’Islam, infatti tutti i procedimenti sono descritti nei manoscritti in lingua araba che indicano l’uso del sale, dell’allume e l’aggiunta di altri ingredienti come orzo, yogurt e farina.

La concia all’olio sembra essere la più antica e serviva a rendere le pelli più morbide grazie all’utilizzo di grassi. Robert James Forbes ha ipotizzato che il termine chamois (camoscio) derivasse dalla parola araba shahm che significa “grasso”6.

Dopo la conciatura, come abbiamo già detto, il cuoio era rifinito in vari modi per dargli specifiche proprietà, e il metodo adottato dipendeva dal prodotto finale che si voleva ottenere.

Uno dei prodotti più rinomati dei conciatori arabo-islamici furono le calzature in cuoio di Cordova che divennero famose in tutta Europa. La loro manifattura iniziò nel XIV secolo usando la pelle del muflone, specie animale che ormai sopravvive solo in Sardegna e Corsica.

Inoltre, gli Arabi introdussero in Spagna un’importante innovazione, cioè la manifattura del cuoio di Cordova (il cosiddetto cordovano), decorato e dotato di caratteristiche uniche che lo resero famoso in tutta l’Europa. Per realizzarlo erano necessari differenti metodi di preparazione, fra i quali la concia con il sommacco e quella all’allume.

Sembra che, a livello archeologico, si conosca ancora ben poco dei contesti di epoca islamica legati alla lavorazione e alla produzione del cuoio.

Durante gli scavi eseguiti tra il 1990 e il 1994 nell’area dell’ippodromo a Jerash, in Giordania, sono emersi alcuni dati che hanno portato ad ipotizzare l’esistenza di un’attività industriale legata alla concia delle pelli. Sono stati trovati depositi di strumenti quali lame e raschietti; inoltre, nel 1994 fu scavata una fornace per la produzione di calce nell’area a nord, fuori l’ingresso dell’ippodromo. Si è dunque ipotizzato che l’ippodromo sia stato riutilizzato come area di produzione per il cuoio verso la seconda metà VI secolo-VII secolo. Successivamente quest’area di produzione subì un periodo di abbandono a giudicare dai depositi stratificati presenti nei vari ambienti7.

Un altro contesto interessante è Jaffa, in Israele, un importante porto nel Mediterraneo abitato sin dall’Età del Bronzo. Sebbene il sito sia stato scavato continuativamente da varie istituzioni negli ultimi quindici anni, è stato pubblicato ben poco riguardo tali indagini archeologiche.

Jaffa, strada Rabbi Hanina, vasche nell’edificio industriale visto da est. / ph. Arbel 2008

Pare che l’area inferiore della città di Jaffa fosse apparentemente un’area ad uso sia domestico che industriale e che, tra le varie installazioni, alcune erano legata alla tintura dei vestiti e alla conciatura delle pelli. Dagli scavi condotti nella strada Rabbi Hanina sono state trovate alcune strutture interessanti legate ad un edificio a scopo industriale. All’interno di tale edificio furono trovate cinque tinozze intonacate (di dimensioni 0.7 m x 1 m); quattro di queste erano disposte in fila e la quinta, a est, era connessa con una conduttura all’ala ovest della costruzione che non è stata scavata. Si conserva una parte della volta in pietra che doveva trovarsi a copertura dell’area con le tinozze. La sesta tinozza, quella più a sud, aveva forma trapezoidale e fu in parte distrutta. L’edificio, ad una certa distanza dal centro, è stato interpretato come area per la concia delle pelli. Non è possibile fornire una datazione precisa a causa di mancanza di reperti, ma, sulla base di confronti con scavi limitrofi, si può ipotizzare tra la fine periodo bizantino e il primo periodo islamico8.

Nell’ambito dell’arte islamica sembra che il cuoio avesse un particolare e distintivo utilizzo. Infatti, nei casi in cui la pittura veniva applicata su uno strato di intonaco steso sul legno, tra il sottile strato di gesso e il legno si interponeva una base di origine vegetale e/o animale.

Nella moschea di al-Aqsa a Gerusalemme ci sono alcuni assi lignei inchiodati ai rinforzi degli archi e la prima trave presso la cupola, su entrambi i lati della navata centrale, che furono rivestite di cuoio e dipinte probabilmente dal fatimide al-Zahir nel 10359. Il soffitto della cupola di questa moschea e quello del corridoio esterno della Cupola della Roccia a Gerusalemme, di fondazione omayyade, sono caratterizzati da una decorazione pittorica su un sottile strato di gesso applicato su fibre di palma e cuoio inchiodate alle travi10. Le risultanze epigrafiche indicano questi soffitti come rifacimenti a opera di al-Nasir Muhammad nel XIV secolo.

Un altro caso interessante riguardante sempre questo particolare utilizzo del cuoio è quello dell’Alhambra di Granada. I tre ambienti più ampi della cosiddetta sala della Giustizia, corrispondenti ciascuno a uno degli ingressi dal Patio de los Leones, recano volte dipinte; molto particolare è la tecnica: un sottile strato di gesso come base alla pittura è applicato su fasce di cuoio legate con striscioline di bambù e incollate all’ossatura lignea11.

Jerrilynn D. Dodds riconosce negli artisti maestranze mudéjares, probabilmente le stesse che lavorarono a Toledo nella seconda metà del XIV secolo, anche grazie alla tecnica di uso strettamente islamico (simile a quella della Cupola della Roccia e della al-Aqsa di Gerusalemme) e, individuandone la committenza musulmana, assegna le pitture al terzo quarto del XIV secolo (si veda Dodds 1979).

Inoltre nel mondo arabo-islamico l’impiego del cuoio lo ritroviamo utilizzato nelle rilegature dei manoscritti. Nella civiltà islamica, quindi, la rilegatura divenne un mestiere importante e di questo argomento si occupano numerosi trattati, fra i quali il Kitab ῾Umdat al-kuttab di Ibn Badis, il Ṣubh al-a῾sha᾽ fi ṣina῾at al-insha᾽ di al-Qalqashandi e la Sina῾at tasfir al-kutub (“l’arte della rilegatura dei libri”) che al-Sufyani scrisse nel 1619.

Lo studio di questi trattati ci permette di comprendere le tecniche di rilegatura che era un mestiere rispettato ed era praticato da uomini istruiti; per esempio il geografo musulmano del X secolo, al-Maqdisi, era anche un rilegatore ed era fiero di svolgere questo tipo di attività durante i suoi viaggi12.

Grazie ai rilegatori musulmani, la tecnica della doratura giunse nell’Europa occidentale nel XVI secolo.

Molte di queste attività artigianali, così come il commercio del cuoio, erano classificate e descritte nei manuali di hisba, cioè la dottrina islamica che, in senso lato, riguarda anche il controllo in campo commerciale.

Si tratta di preziosi documenti rappresentativi delle condizioni economiche delle varie regioni del mondo islamico; inoltre sono fonti molto utili per ricostruire, in base alle professioni, il panorama dei vari settori economici relativo all’Islam.

I prodotti in generale, e quelli relativi al pellame in particolare, erano soggetti al controllo qualità da parte del muhtasib, ossia una sorta di “supervisore”; l’origine dell’ufficio in sé si può rintracciare nella precedente figura dell’agoranòmos, molto diffusa sin dai tempi dell’antica Grecia.

Ad esempio nel Ma’alim al-Qurba (“Sui compiti del muhtasib”) venivano fornite informazioni sulla manifattura del cuoio ed in particolare istruzioni sul controllo della qualità delle calzature, le specificazioni che richiedevano l’uso delle pelli ben conciate di al-Ta’if. Compito del muhtasib era anche quello di informare sulle pelli non sufficientemente conciate o “bruciate”, se eccessivamente conciate13.

Una maggiore specializzazione regionale nella lavorazione delle pelli e nei relativi prodotti inizia ad apparire nel mondo arabo-islamico a partire dall’XI secolo, riguardando in particolar modo il Nord Africa e la Spagna musulmana.

Per quanto riguarda la Spagna musulmana, un fatto molto interessante è la divisione etnica che si riflette sul mondo del lavoro. Ad esempio, i mawali ispano-romani, cioè coloro che da schiavi acquistavano la condizione di uomini liberi pur mantenendo tuttavia un vincolo sociale e giuridico con il padrone, erano quelli che vivevano nelle città e che si occupavano di seguire le operazioni di conciatura (in arabo dibagha), la vendita di scarpe in cuoio (in arabo ni’al makhruza) e varie operazione legate alla produzione e alla lavorazione del pellame.

Evidenze dal XIII secolo in poi mostrano che le pelli avevano una posizione prominente nella lista di articoli esportati dal Maghreb.

Dunque il commercio e la produzione del cuoio furono così importanti tanto che, analizzando la distribuzione dei lavori all’interno del settore manifatturiero, la forza lavoro relativa alla concia delle pelli rappresenta il dieci per cento nei primi secoli dell’Islam (dall’VIII all’XI secolo) e rimane costante anche dal XII al XV secolo14.

Si deve sostanzialmente alla civiltà islamica se il patrimonio di conoscenze legato alla lavorazione delle pelli cominciò a giungere in Europa, soprattutto grazie agli Arabi di Spagna, che esportarono e fecero conoscere nel resto d’Europa le pelli del Marocco e di Cordova, eccellenti per la loro qualità e i loro colori meravigliosi. Fu proprio attraverso questo trasferimento di tecnologia che, già nel XV secolo, l’industria della conciatura si stabilì in Europa.

Tuttavia, la tecnologia di base di quest’arte rimase immodificata per lungo tempo e fino alla fine del XIX secolo; infatti, i soli cambiamenti significativi consistettero nell’introduzione di macchinari azionati a motore e nell’uso del sale di cromo.

Fez, stabilimento per la concia delle pelli / ph. Giorgia Dato 2014

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1 Niir 2011, pp. 20-21.
2 Le pitture rupestri di circa 35 mila anni fa mostrano gli abiti maschili in pelle. Kite & Thomson 2006, p. 66.
3 Leguilloux 2004, p. 5.
4 Grobbel 1997, p. 125.
5 Grobbel 1997, p. 125.
6 Al-Hassan & Hill 1989, p. 197.
7 Bikai & Kooring 1995, pp.525-526.
8 Arbel 2008.
9 Creswell 1989, pp. 76-82.
10 Creswell 1989, p. 30.
11 Doods 1979, p.188. La pittura centrale raffigura, su fondo dorato, dieci personaggi maschili in abiti musulmani seduti in circolo, già identificati nel sovrano nasride Muhammad V e nei suoi nove antenati; le due laterali raffigurano, su fondo blu-verde arricchito di molti fiori e animali, favole di episodi cavallereschi, alcuni dei quali di tradizione francese.
12 Al-Hassani & Hill 1989, p. 198
13 Shatzmiller 1994, p. 74.
14 Shatzmiller 1994, p. 231.

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Giorgia Dato

Archeologa libero professionista e specializzanda in Beni Archeologici, nel 2015 ha conseguito la laurea magistrale con il massimo dei voti presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”.
Durante gli studi ha partecipato a vari laboratori formativi (ceramica, epigrafia e numismatica islamica) e a diverse campagne di scavo e ricognizioni archeologiche nel Lazio (Veio) e in Basilicata (in Alta Val d’Agri e a Satrianum).
Da sempre si dedica con passione a studi sul mondo islamico, che ha avuto modo di approfondire negli anni universitari e di conoscere direttamente viaggiando in vari paesi nelle aree del Vicino e Medio Oriente.
Tra il 2016 e il 2018 ha lavorato nel Sultanato dell’Oman, partecipando a missioni di scavo e di restauro archeologico.
Ha collaborato inoltre con varie istituzioni a Roma, tra le quali il Museo Nazionale d’Arte Orientale “Giuseppe Tucci”, il Museo delle Civiltà e il Parco Archeologico del Colosseo.

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