Le fluttuazioni colorate che ci regala la pandemia hanno, tra le altre cose, una diretta influenza sulle serrature dei musei. Da oggi quella che chiude il pesante portone del Palazzo del Collegio dei Nobili in via Accademia delle Scienze non scatterà, sigillando quell’ettaro di reperti egizi che fin dal 1824 arreda e conforta la città di Torino.
È già capitato e va detto che il Museo Egizio, assieme ad altre grandi istituzioni museali italiane, ha potuto e saputo gestire la serratura in modo esemplare, facendola scattare ogni volta che la paletta dei colori pandemici ne ha liberato l’uso. Purtroppo moltissimi musei “minori” non ce l’hanno fatta e il peso della prima serrata totale ha bloccato del tutto le serrature dei loro portoni.
Non è questo il luogo per effettuare un agile volo radente ricco di dettagli, che tra un’imbardata e una virata riesca a zigzagare tra ministeri che cambiano nome e riforme incomplete che spostano ingenti somme da un parte lasciando miserie dell’altra, o per muoverci tra professionalità non tutelate e gli appalti per i servizi museali. Rischierei per altro di non riuscire ad andare oltre quel deleterio e approssimativo “secondo me” di cui è già saturo il web in ogni sua declinazione e di cui faccio e, sono certo, fate volentieri a meno.
Non ci resta che tirare la cloche e provare a vedere le cose dall’alto, dove i dettagli perdono via via i contorni e le cose dell’anima vibrano meglio, e dove i vari “secondo me” diventano punti di vista su cui si può riflettere.
L’idea più diffusa di museo è quella di un luogo dove qualcuno mette cose che vale la pena conservare e qualcun altro si organizza, da solo o in gruppi più o meno numerosi, per vistarlo. Tra le cose custodite in quei luoghi sono presenti delle vere e proprie icone del nostro tempo che vengono visitate da milioni di persone, disposte a sostenere anche lunghi e costosi viaggi.
Non tutti i musei però dispongono di una o più ouvrages d’art realizzate da vere e proprie star internazionali come Michelangelo, Donatello, Caravaggio, Botticelli – solo per citarne alcuni – e non riescono quindi a suscitare interesse tra coloro che si organizzano, da soli o in gruppi più o meno numerosi, per visitare questi “luoghi di raccolta”, ormai sempre più scollegati dal tessuto sociale che li circonda.
Il museo si fa impresa, e potremmo discutere all’infinito sul rapporto pubblico/privato, ma dimentica sé stesso. La sua organizzazione viene scandita sempre più dal flusso turistico generatore di numeri e di profitto, che influenza pesantemente l’interesse e gli investimenti a livello centrale, arrivando ad un dato che io leggo come un paradosso: nel 2019, l’anno prepandemico che offre dati a pieno regime più vicini a noi, i soli Uffizi (esclusi quindi Palazzo Pitti e il Giardino di Boboli) hanno visto varcare il proprio portone di ingresso a 2.361.753 visitatori; il Museo Archeologico di Firenze, che in linea d’aria dista poco più di un chilometro, ne ha accolti 76.637.
Se vogliamo trovare una motivazione al sorprendente disinteresse dimostrato verso le istituzioni museali del nostro Paese durante le varie fasi della pandemia, forse la dobbiamo cercare tra la pieghe di questa riflessione.
Se per il mondo politico il museo è un contenitore di cose che vanno conservate e che devono essere messe a reddito, non stupisce che abbia trovato come unica soluzione quella di chiuderli, nonostante la pronta messa a punto di metodologie d’accesso adeguate a garantire le visite in piena sicurezza, a prescindere dai colori pandemici di ciascuna regione.
Stupisce invece la macroscopica mancanza di una visione diversa che invece trovo palese.
La nostra vita è un museo. Le nostre case sono musei. Le nostre città sono musei. Tutti noi nel corso della nostra vita abbiamo organizzato lo spazio che ci circonda con l’unico scopo di stare bene. Lo abbiamo fatto appendendo una stampa di Van Gogh o la foto di un nostro caro, prendendoci cura di un vaso di fiori freschi o realizzando una parete colorata. Spesso gli artisti esprimono la propria arte nelle nostre piazze, sulle facciate austere di alcuni palazzi, su autobus e treni; gli architetti danno forma nuova a spazi che sarebbero sempre uguali e la stessa natura, nel suo meraviglioso e apparente disordine, concorre al nostro benessere con ciò che quotidianamente ci regala.
I musei sono dunque la casa di tutti noi, il luogo dove andiamo a ritrovare il nostro equilibrio, la cui funzione è ancor più evidente nei momenti di difficoltà, quando i riferimenti che ci guidano sono sfocati e le certezze meno solide.
Entrare in un museo significa innanzitutto modificare il tempo che stiamo vivendo mettendo noi stessi al centro del suo scorrere, avvolti da una stimolante quiete in cui immergersi senza timori, che porta benefici a tutti i livelli.
E poi c’è il Museo Egizio che ha il buon gusto di esserci sempre con la piacevole leggerezza che si respira tra le sue sale, conseguenza di un lavoro quotidiano faticoso che non si ferma con il portone chiuso e non si limita al perimetro del palazzo (Per le attività che il Museo Egizio svolge nel territorio leggi qui:
https://mediterraneoantico.it/articoli/news/museo-egizio-un-museo-fuori-di-se/)
Non è questo un luogo indispensabile? Non è questo un farmaco necessario?