Una delle feste più interessanti e forse meno note dell’ antica Roma era quella del “cavallo di Ottobre”. Celebrata in occasione delle Idi di Ottobre (15 Ottobre) e officiata dal flamen martialis, il sacerdote preposto al culto di Marte, l’october equus (questo il nome in latino) era il sacrificio di un cavallo in onore del dio Marte. La scelta del 15 ottobre era significativa: segnava, infatti, la fine delle campagne militari e delle attività agricole, interrotte al sopraggiungere dell’inverno. La festa era una delle tre basate su corse equestri celebrate in onore di Marte (Equirria). Le altre si svolgevano il 27 febbraio e il 14 marzo, in occasione verosimilmente della ripresa delle attività agrarie e militari dopo la stagione fredda.
La corsa dei carri che precedeva il sacrificio si svolgeva al Campo Marzio (luogo da sempre teatro di esercitazioni militari), in una parte dell’ ippodromo detto Trigarium- oggi localizzabile lungo la riva del Tevere, in un tratto compreso tra gli attuali Ponte Sisto e Ponte Vittorio Emanuele II- proprio perché in epoca arcaica era il luogo adibito alle corse dei tiri a tre (trigae).
Il cavallo sacrificato il 15 Ottobre era quello aggiogato a destra, verso l’esterno, nella corsa delle bighe e apparteneva alla biga vincente: alla fine della corsa veniva trafitto da una lancia e sacrificato mediante taglio della testa (caput) e della coda (cauda). Il cavallo in questione era evidentemente quello che manifestava il vigore maggiore perché sopportava lo sforzo massimo nella corsa, considerata la sua posizione nell’aggiogatura e il fatto che le corse nell’ antichità si facevano in senso antiorario. L’ utilizzo della lancia potrebbe essere spiegato, afferma Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia, con il pericolo che l’officiante potesse entrare in contatto col fiele del cavallo, considerato impuro. Ed ecco la scelta della lancia, che permetteva di mantenere una distanza di sicurezza tra il lanciatore e la vittima.
Diversa la direzione presa dalle due parti recise dal corpo dell’ animale. La testa del cavallo veniva contesa, probabilmente tramite una lotta fisica violenta (contentio), tra gli abitanti della Suburra (Suburanenses) e quelli del “quartiere” della Via Sacra (Sacravienses): se vincevano i primi, essa finiva appesa alla Torre Mamilia, un edificio, eretto nella stessa Suburra, appartenente alla gens che si diceva discesa dal fondatore di Tusculum, Mamilio; se vincevano i secondi, la testa veniva affissa a un muro della Regia. Quanto alla coda, essa veniva portata di corsa proprio alla Regia del Foro romano, un complesso assai vasto che comprendeva verosimilmente la casa delle Vestali e quella del Rex sacrorum, una figura magistratuale assai importante nella Roma repubblicana il cui compito era celebrare le funzioni religiose di cui era investito un tempo il re, e successivamente sostituito dal Pontefice Massimo nella fase più tarda della Res publica.
Ma perché era necessario correre con la coda del cavallo fino alla Regia? Il motivo è legato allo sgocciolamento del sangue non ancora coagulato, necessario per irrorare il fuoco acceso del Sacrarium Martis, luogo sacro della Roma arcaica dove era custodito lo scudo di bronzo (ancile) del dio della guerra, piovuto dal cielo, donato a Numa Pompilio e, successivamente, portato in processione dai sacerdoti della Confraternita dei Salii assieme a undici copie dello stesso al fine di tener lontani i profanatori. I Salii, come si evince dall’ etimologia del loro nome, avanzavano “saltellando” durante la processione (“salio” in latino significa “saltare”, anche come espressione di passi di danza) agitando gli scudi sacri. L’ evento era festeggiato il 19 marzo, data della nascita di Marte e dell’ arrivo sulla terra dello scudo sacro.
Una volta spento il fuoco sacro che ardeva nel sacrarium, le ceneri venivano raccolte dalle Vestali in un vaso e conservate all’interno del penus Vestae, il sancta sanctorum all’ interno del tempio di Vesta, un vano a forma trapezoidale a cui solo le sacerdotesse potevano accedere.
Le ceneri sarebbero state utilizzate per allestire il suffimen necessario alle fumigazioni dei riti purificatori celebrati il 21 Aprile, in occasione della feste agricole dette Parilia o Palilia. Le fumigazioni, che sarebbero servite per propiziarsi il favore della dea Pale, erano effettuate con un preparato a base di sangue essiccato di cavallo (quello derivante, forse, dalla coda del cavallo sacrificato), fusti di fave e ceneri di trenta embrioni di vitello bruciati dopo il sacrificio della madre, una mucca gravida (forda). Della composizione del preparato ci informa Ovidio nei “Fasti”(IV, 731-734), citando “sanguis equi, vituli favilla e durae culmen inane fabae”.
E’ interessante sottolineare come tre feste, di natura evidentemente agricola, si celebrassero a brevissima distanza l’una dall’ altra, probabilmente per mantenere ancora intatto il potere magico-religioso delle ceneri (il 15 aprile si festeggiavano i Fordicidia, il 19 aprile i Cerealia– altra festa legata al raccolto e alla terra- il 21 aprile, infine, i Parilia o Palilia). Tuttavia non tutti i commentatori concordano con l’idea che il sangue di cavallo utilizzato durante i Parilia fosse quello dell’ october equus. Dumézil afferma che la quantità di sangue rimasta dopo lo spegnimento del focolare delle Vestali, raccolta in extremis in un vaso, sarebbe stata infinitamente minore rispetto alle ceneri dei trenta embrioni di vitello e agli steli di fave.
Non solo: restava in piedi anche l’ipotesi che il corridore recante la coda del cavallo potesse cadere nel tragitto verso la Regia o che la sua velocità non fosse adeguata alla consegna di far arrivare, ancora sgocciolante, la coda. Troppe le variabili e poco convincenti nella direzione di un medesimo cavallo sacrificato ad Ottobre e il cui sangue fosse utilizzato durante i Parilia, in primavera. Più plausibile è che durante i Parilia si mutilasse un altro cavallo per trarne sangue fresco. Mutilasse, non uccidesse. Perché qui interviene una fonte erudita, quella rappresentata da Properzio, che in un passo della sua “I Elegia Romana“ ci parla di un cavallo appositamente mutilato per le cerimonie purificatorie dei Parilia. Usa l’espressione equus curtus, che si usa generalmente per designare un cavallo mutilato di un organo (testicoli, orecchie o coda) ma rimasto in vita, non un organo tagliato ad un cavallo morto, come nel caso di quello sacrificato durante l’october equus.
Quali fonti ci consegnano una testimonianza del cavallo di Ottobre? La prima testimonianza storica dell’ october equus è di Timeo di Tauromenio (storico del III secolo a.C.), che collegava il sacrificio al cavallo di Troia e alla rivendicazione dei Romani di discendere dai Troiani.
Alla versione di Timeo risponde assai polemicamente lo storico greco Polibio, affermando:
“E nelle sue Vicende di Pirro, Timeo sostiene pure che i Romani, commemorando ancora oggi in un giorno preciso la caduta di Ilio, uccidono a colpi di lancia un cavallo da combattimento davanti alla città, nel luogo chiamato Campo Marzio, perché la presa di Troia sarebbe avvenuta grazie al cosiddetto cavallo di legno. Questo è il culmine dell’ingenuità! In questo modo, infatti, poco ci mancherà che tutti i barbari dicano di essere discendenti dei Troiani. Quasi tutti i barbari infatti–o, almeno, la maggior parte di loro–non appena stanno per cominciare una guerra o per intraprendere una battaglia decisiva contro taluni, fanno un sacrificio preliminare con un cavallo e lo immolano, traendo segni sull’avvenire dalla caduta dell’animale.”
Polibio non manca certo di valide argomentazioni, ma tralascia di analizzare in profondità un elemento che Timeo aveva, invece, sottolineato: quello del colpo di lancia sul fianco del cavallo. Ecco cosa aveva scritto Euripide nel prologo delle “Troiane” (vv. 9-14):
“Infatti un uomo del Parnaso, Epeo focese, con gli artifici di Pallade, fabbricò un cavallo gravido d’armi, lο inviò entro le mura, ligneo simulacro di morte. Di qui sarà chiamato daiposteri ‘Cavallo di legno’ (δούρειος ἵππος), poiché avvolgeva l’ occulto legno delle lance.”
La relazione tra il cavallo e la lancia è stata ripresa nel II libro dell’ “Eneide” (vv. 50-53) da Virgilio, forse memore del passo euripideo e della versione di Timeo, quando il sacerdote Laocoonte colpisce il fianco del cavallo di legno con una lancia e, sicuramente, della festa dell’ October equus.
“sic fatus validis ingentem viribus hastam
in latus inque feri curvam compagibus alvum
contorsit. Stetit illa tremens, uteroque recusso
insonuere cavae gemitumque dedere cavernae”.
“E detto così, con tutte le forze la sua grande asta
scagliò nel fianco del mostro, nel ventre ricurvo,
compatto. Si conficcò l’asta vibrando, sonarono,
percosso il ventre, le vaste caverne e gemettero.”
In un altro passo, l’antiquario e grammatico della prima età imperiale Verrio Flacco aggiunge il dettaglio che la testa del cavallo era adornata con pane, il che è evidente riferimento ad un rapporto tra il sacrificio del cavallo e le origini agricole di Roma. Flacco, infatti, scrisse che la ragione del sacrificio era ob frugum eventum, cioè “in vista del raccolto” dell’ anno successivo. Ricordiamo, infatti, che la semina del grano in Italia va dal mese di ottobre a gennaio, a seconda della zona. Adornare, dunque, di pane la testa del cavallo, consentendo al prodotto finito realizzato con grano di stare a contatto con la testa dell’animale equivarrebbe di fatto ad accrescere considerevolmente le potenzialità del grano presente e futuro. Vero è che, però, esiste un’altra interpretazione, secondo Dumézil, più valida: ob frugum eventum significherebbe anche “in pagamento (o in riconoscenza) della mietitura passata”. In questo caso, il sacrificio del cavallo di ottobre non sarebbe stato all’inizio della semina ma alla sua conclusione e la prova starebbe proprio nel fatto che la testa è adornata da pani, dal prodotto finito, e non da spighe o da semi.
Il grammatico Festo, col corredo anche dell’opera di Verrio Flacco, descrive così la festività:
“Il cavallo di ottobre è chiamato così dal sacrificio in onore di Marte che annualmente si effettua in Campo Marzio nel mese di ottobre. Esso è il cavallo di destra della squadra vincitrice nelle corse delle bighe. La consueta competizione per la sua testa tra i residenti della Suburra e quelli della Via Sacra non era un affare banale; la seconda l’avrebbe appesa alle pareti della Regia, o la prima alla Torre Mamilia. La sua coda era trasportata alla Regia in maniera sufficientemente rapida che il sangue che ne usciva poteva essere sgocciolato sul fuoco per farlo diventare parte del rito sacro.”
Lo storico Plutarco nelle sue “Quaestiones romanae” (97) tenta di fare una sintesi delle opinioni in merito, citando, tra l’altro, proprio Timeo, pur senza farne il nome.
Dopo che si è svolta la corse dei carri alle idi di ottobre, il cavallo di destra del carro vincitore è sacrificato ad Ares. Perché? Uno gli taglia la coda, la porta all’edificio chiamato Reggia e cosparge di sangue l’altare, ma per la testa combattono, alcuni scendendo dalla Via Sacra e altri dalla Suburra. Forse come dicono alcuni, credendo che Troia sia stata conquistata con un cavallo, puniscono un cavallo in quanto essi invero sono “nobile prole di Troiani uniti a figli di Latini.” Oppure perché il cavallo ha carattere ardimentoso, guerresco, marziale, ed essi sacrificano agli dei soprattutto ciò che è gradito e adatto, ed è sacrificato il vincitore perché al dio è famigliare la vittoria e la forza. O piuttosto perché l’azione del dio è resistere e coloro che stanno fermi nello schieramento vincono quelli che non restano ma fuggono, ed è punita la velocità in quanto è risorsa di viltà e simbolicamente insegnano che non v’è salvezza per chi fugge.”
L’ ultima testimonianza si trova nel Calendario– facente parte del Cronografo– di Furio Dionisio Filocalo, relativo all’ anno 354 d.C., da cui risulta in tutta evidenza che la festività fosse ancora celebrata dopo l’editto di Milano (313 d.C.) e prima di quello di Tessalonica (380 d.C.), emanato dagli imperatori Teodosio I, Graziano e Valentiniano II, che stabilì che il Cristianesimo fosse la religione ufficiale dell’ Impero romano. Ed è singolare che Filocalo, calligrafo di papa Damaso I, benché cristiano, nel suo Calendario, il primo dell’ età cristiana, abbia annotato anche alcune feste pagane, tra cui, appunto, l’october equus.
Filocalo annota che il 15 ottobre “il cavallo ha luogo presso le Nixae” (LVDI EQVVS·AD·NIXAS·FIT), un altare per le divinità della nascita (di nixi) o, secondo alcuni, un cippo chiamato Ciconiae Nixae. Le cicogne con le zampe piegate, come accovacciate sul nido, riproducono la posizione del parto delle donne romane. L’uccisione del cavallo, infatti, aveva luogo nel Tarentum, santuario delle divinità degli Inferi, Dite e Proserpina, in un punto detto ad Nixas, dove si trovava probabilmente un sacello o un ninfeo con le statue delle due Nixae, le Ilizie (Ilithyiae), protettrici delle partorienti.
La figura di Marte agrario era stata già descritta da Catone il Vecchio nel suo “De agri cultura”, dove si riporta una preghiera al dio per la protezione dei campi da ogni tipo di calamità. Marte riveste dunque un doppio ruolo, quello di dio della guerra e padre del fondatore di Roma, e di dio protettore dei campi, come sostenuto in passato da alcuni studiosi? Non è d’accordo Georges Dumézil che nega il collegamento tra Marte e l’ambito campestre, visto che non sovrintende alla fertilità della terra ma ne protegge l’integrità come un soldato armato, non snaturando, dunque, la sua essenza eminentemente guerriera. Questo spiegherebbe anche la scelta del cavallo, animale destinato alla guerra, piuttosto che del bue, legato alle attività agricole. Il cavallo rimanda, infatti, a Marte come divinità capace di tenere lontani malattie, ladri e spiriti ostili dai campi coltivati dai Romani.
Eva Cantarella sottolinea che la parola cauda in latino significa anche “pene” e che l’october equus e la cerimonia in generale potrebbero rimandare ad un rito di fecondità in onore di Marte agrario. Ma un episodio risalente al I secolo a.C. contraddice, secondo la studiosa, questa idea. Quando Cesare si avviava a diventare dittatore, alcuni soldati si ribellarono alla sua decisione di acquistare tende di seta per proteggere la vista degli spettatori a teatro, durante i giochi. L’opposizione dei soldati era dovuta al fatto che, non essendo stato loro corrisposto il soldo, consideravano la spesa superflua ed eccessiva. Cesare reagì punendo con la morte il principale colpevole e consegnando due soldati al Flamen Martialis e al Pontefice Massimo, che li uccisero in campo Marzio. Da lì le teste furono portate alla Regia, esattamente come la coda del cavallo di Ottobre. Ecco cosa commenta Dione Cassio a cui dobbiamo la narrazione del gesto di Cesare.
“Questa procedura non è prescritta dalla Sibilla né da alcun oracolo di questo tipo. E’peraltro sicuro che i soldati furono sacrificati nel Campo di Marte dai Pontefici e dal sacerdote di Marte, e che le loro teste furono portate alla Regia e ivi infisse.”
Non si comprende il senso di una condanna così singolare con l’uso anche romano di decapitare il nemico per poi esporlo come trofeo, soprattutto perché viene coinvolta un’area sacra, quella della Regia, e un’area destinata alle esercitazioni militari, il Campo Marzio. Ecco perché la Cantarella, a differenza di buona parte dei commentatori, ritiene che il sacrificio del cavallo di Ottore nasconda un preciso significato bellico e non agricolo.
A questa conclusione rimanderebbero non pochi argomenti: le vittime (soldati ribelli), il luogo dell’esecuzione (Campo Marzio), l’officiante (il Flamen Martialis), il sentenziante (Giulio Cesare in veste di comandante delle truppe) e forse la scelta della modalità di esecuzione, probabilmente la securi percussio (decapitazione tramite ascia), generalmente associata all’ imperium, di cui Cesare era dotato. E’ peraltro vero che la disciplina militare romana non ammetteva deroghe e che l’insubordinazione o il non rispetto puntuale degli ordini veniva punito con la morte, ma è inevitabile collegare il “sacrificio” dei soldati ribelli a quello del cavallo di Ottobre, a cui molti elementi, come già affermato prima, sembrano alludere.