Dracma con siflio e regnante

Quando ci si appassiona di cucina antica, specificatamente di cucina romana, prima o poi ci si imbatte in una pianta, una spezia, che ricorre in tantissime ricette romane: il silfio. La prima reazione potrebbe essere quella di segnare questo ingrediente tra quelli che dovrete procurarvi per poter cucinare la ricetta che avete scelto, ma vi dico subito che potete risparmiarvi la fatica. Infatti, il silfio è ufficialmente estinto, e pare lo fosse già in epoca neroniana; tanto che, stando a Plinio (N.H., XIX, 15, 39) si faticò moltissimo a trovare una piantina da regalare all’imperatore figlio di Agrippina Minore.

In pratica, quindi, secondo i ricercatori, questa spezia si estinse già verso il terzo quarto del I secolo per via dell’eccessiva raccolta che ne venne fatta. Ma il silfio e già utilizzato prima che lo facessero i Romani. Per esempio, il medico di Tolomeo IV Filopatore, alla fine del III sec. a.C., lo utilizzava per realizzare degli infusi a scopo medicinale. I Greci lo conoscevano bene e lo chiamavano generalmente σίλϕυων, silfyon, e anche loro lo utilizzavano in cucina per la preparazione di una salsa fatta con il silfio, appunto, il sale, la ruta e l’aceto e che usavano per condire soprattutto la trippa, o le verdure. I Romani lo chiamavano silphium o laserpicium, parola composta da lac + sirpicium che identificava non tanto la pianta quanto il succo che se ne estraeva e che veniva usato in cucina. Quindi nel tempo questa parola passò a indicare l’intera pianta ma anche altre specie con le quali si tentò di sostituirla quando scomparve.

Il suo succo era particolare: pare che uscisse in forma liquida, incidendo il fusto, ma che in brevissimo tempo a contatto con l’aria diventasse solido. L’immagine di questa pianta giunge fino a noi tramite le raffigurazioni sui rovesci monetali di coniazioni dell’area dove cresceva e che era particolarmente circoscritta: una striscia di terra lunga circa 200 km e larga forse 50 lungo la costa della Cirenaica, l’attuale Libia.

Tetradracma da Cirene

Al British Museum è esposta, ad esempio, una dracma in argento coniata intorno al 450-420 a.C. che raffigura il silfio. Ma potremmo citare molti altri esempi di monete facenti parte della produzione numismatica della città di Cirene, colonia greca in Africa. Addirittura la moneta più antica mai trovata di Cirene, del IV sec. a.C., riporta proprio una pianta di silfio. Un altro chiaro indizio sul suo aspetto ce lo fornisce Teofrasto di Lesbo, che scrive così nella sua “Storia delle piante”:

“…ha una grande radice con un lungo e robusto stelo e foglie simili a quelle del sedano. Il bulbo è tondeggiante e pieno. Il suo fogliame… Somiglia a quello del sedano selvatico. Il seme, grande e piatto, è una samara, cioè non si apre spontaneamente a maturazione avvenuta. E’ pianta annuale…”. (VI, 3)

In pratica, le monete e la descrizione di Teofrasto ci inducono a immaginare il silfio come una sorta di finocchio gigante, comunque una pianta della famiglia delle Apiaceae o delle Ombrellifere. Dioscoride Pedanio, nel suo De Materia Medica, ci dice che dal suo colore si poteva stabilire la qualità:

Dracma con Silfio e fioritura

è di qualità quando è rossastra e traslucente, simile alla mirra e con un profumo molto potente, non verdastra, non grezza in sapore, e che non muta facilmente il suo color in bianco…” (III).

In ogni caso, indipendentemente dal suo aspetto, questa spezia era costosissima. Pensate, si riteneva che fosse stato direttamente il dio Apollo a donare il silfio all’umanità e Plinio il Vecchio dice che costava addirittura “un denario d’argento alla libbra…” (XIX, 15, 38). Sempre il grande naturalista scomparso durante l’eruzione di Pompei scrive che nel 93 a.C. Roma ne fece importare 30 libbre usando denaro pubblico. Sempre Plinio scrive che Cesare, per finanziare la sua guerra civile contro Pompeo, sottrasse all’erario oro, argento e… 1500 libbre di silfio!

Viene da sé che l’intera cirenaica godette i benefici derivanti dallo sfruttamento intensivo di questa pianta, tanto che era il bene più prodotto e più esportato in assoluto. Questa pianta sembra che non crescesse in nessun altro luogo e non sopravvivesse né ai trapianti né ai tentativi di coltivazione su larga scala. In pratica si poteva solo raccogliere ciò che spontaneamente, ed esclusivamente, cresceva lungo il tratto di terra indicato e coltivarlo in maniera locale. Ogni tentativo di coltivarla altrove fu vano. L’importanza che assunse il commercio di questa spezia è ben chiaro osservando la famosa Coppa di Arkesilas, del 560 a.C., dove il sovrano stesso, facendo uso di un suo privilegio specifico, assiste all’operazione di pesatura del silfio.

Vaso i Arkesilas

Bastarono, pare, pochi secoli di sfruttamento intensivo a estinguere la pianta già in epoca antica. Se pensiamo che Cirene venne fondata dai greci nel 610 a.C. e che il silfio venne scoperto sette anni dopo, in circa 5-600 anni di raccolta forsennata la pianta era diventata introvabile.

Ma quali furono i motivi che portarono all’estinzione di questa pianta?

Secondo gli antichi scritti fu la raccolta incontrollata dovuta alla cupidigia dei governanti, desiderosi di arricchirsi all’inverosimile. Uno studio attento delle fonti storiche, però, ci riporta altre ragioni e tutte potrebbero essere concorrenti nell’epilogo di questa vicenda.

Come detto, la teoria principale e maggiormente accreditata è quella più semplice: il silfio si esaurì perché venne raccolto interamente per soddisfare la richiesta di mercato. A tal proposito va ricordato che nel 74 a.C. Roma aveva tramutato Creta e Cirene in provincie senatoriali. I governatori non percepivano alcun salario da Roma e traevano vantaggio dallo sfruttamento delle risorse locali. Quindi, secondo questa teoria, avrebbero distrutto l’habitat naturale per la pianta selvatica, coltivandola in maniera deregolata. E se andiamo a rileggere quello che scrive Cicerone (nelle Verrinae) sulla corruzione dei governatori locali, può sembrare una ipotesi molto valida.

Un’altra ipotesi prende in considerazione alcuni fattori climatici naturali. Quindi l’estinzione sarebbe da attribuirsi al clima della regione del Maghreb, con la sua desertificazione espansiva e il processo di inaridimento protrattosi per secoli. Una teoria che però lascia molte lacune logiche legate alle altre piante presenti, alla “selettività” di questi fattori, alle condizioni climatiche precedenti e comunque il lasso di tempo sembra davvero troppo breve.

Secondo una terza teoria che ci giunge da Plinio (XIX, 15, 43), la colpa sarebbe degli animali da allevamento che venivano nutriti solo con questa pianta perché, pare, avesse presunti effetti migliorativi sulla qualità della carne. L’estinzione di questa spezia, pertanto, sarebbe stata causata dall’incidenza di due fattori: l’eccessivo sfruttamento del raccolto unito all’eccessiva attività di pascolo. Questa terza teoria però ci sembra poco probabile visto che la carne di pecora valeva certamente molto meno, sul mercato, di quanto si sarebbe ricavato dalla vendita del silfio.

Asafetida, della famiglia delle apiacee

Quarta ipotesi, stavolta davvero bizzarra, è quella formulata da J.S. Gilbert. Secondo lui il prodotto tanto apprezzato sarebbe stato un miscuglio di estratto di pianta e intestini di insetti contenenti il composto chimico della cantaridina, principio attivo della cantaride (Lytta vesicatoria). Secondo Gilbert questo ingrediente, che sarebbe stato aggiunto all’estratto di pianta, era conosciuto solo da pochissimi. Quando i governatori romani presero il controllo della zona fecero estrarre il succo di silfio agli schiavi, i quali, però, ignoravano di dover aggiungere la cantaridina. Questo causò un sensibile abbassamento della qualità fino a rendere il prodotto scadente, tanto da lasciar pensare che il “vero” silfio, quello particolarmente apprezzato, fosse ormai introvabile, e successivamente estinto. C’è da dire che oggi sappiamo che la cantaridina è una sostanza tossica e può, se non provocare la morte, far comunque male, o procurare aborti, proprietà conosciuta e proprio per questo sfruttata a livello farmacologico già in antichità, come riferiscono Plinio e Sorano di Efesto, famoso ginecologo, diremmo oggi noi.

Quinta e ultima teoria ci arriva stavolta da Strabone. Secondo il geografo e storico greco il silfio si sarebbe estinto per le dispute tra i raccoglitori, cioè i pastori della cirenaica, e i commercianti che poi lo vendevano. Secondo Strabone i pastori distrussero un’infinità di piante, sradicandole, come protesta per gli esigui guadagni che facevano rispetto ai commercianti, che invece rivendevano poi le piante di silfio sul mercato del Mediterraneo a “peso d’oro”, diremmo quasi.

Naturalmente, visto l’uso su larga scala che ne veniva fatto a Roma (basta dare una letta a un qualsiasi ricettario romano), si cercò subito di trovare un sostituto per questa spezia e, in Partia, venne effettivamente rintracciata una pianta molto simile, seppure ritenuta di minore qualità, chiamata appunto laser parthicus. Proprio l’onnipresente Plinio ci riferisce come questa varietà di silfio fosse decisamente diversa dall’originale:

“…è di qualità molto inferiore rispetto a quello della Cirenaica, e per di più spesso mescolato con gomma o sacopenio (gomma estratta da una varietà di ferulacea orientare e italica) o fave tritate…” (XIX, 15, 40).

Al di là della nota di Plinio sulla estrema difficoltà di regalare una pianta di silfio a Nerone, al tempo del vescovo Sinesio, cirenaico, (373-414), la pianta era data ormai per estinta con certezza, e lo stesso vescovo ringraziava il fratello per avergliene donata una minuscola quantità.

Per chi non volesse credere a nessuna delle teorie menzionate e fosse invece sicuro che, da qualche parte, il silfio ancora cresca indisturbato (finalmente, diremmo!), qualche studioso ritiene di poter identificare la famosa spezia estinta nella Ferula tinginiana. Alla fine del XIX secolo il botanico Paul Ascherson era certo che il silfio fosse ancora presente in Libia, nelle zone steppose, dove cresce l’artemisia herba-alba. E forse perché per un brevissimo lasso di tempo il silfio ricomparve in un mercato parigino proprio alla fine del XIX secolo, ma certamente si trattò della Thapsia garganica, già citata da Teofrasto.

Qui da noi, in Italia, sono presenti non una ma ben otto varietà di “silfio”, alcune anche particolari, come il laserpizio sermontano (Laserpitium siler), ma nessuna presenta le caratteristiche elencate dai vari Plinio, Columella e Celso, visto che il silfio era usatissimo anche nella farmacopola.

Beh, in ogni caso, se appartenete alla schiera degli “avventurosi e nostalgici” e ritenete che il silfio, ben protetto e nascosto al mondo cresca ancora spontaneo in qualche anfratto roccioso libico, sappiate che la Società Francese di Geografia, tanti tanti tanti anni fa, mise in palio un premio per chi avesse ritrovato una sola pianta di silfio.

Ed il premio non è stato ancora reclamato da nessuno.

 

Giorgio Franchetti

“Vivere e far rivivere la storia…”

www.giorgiofranchetti.com

info@giorgiofranchetti.com

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