In questo periodo, tra le tante cose che non si possono fare, c’è anche l’infiltrarsi al Museo Egizio. E allora voglio raccontarvi perché amo i musei, cosa penso di loro e come vorrei che fossero, cercando di mettere assieme dei pensieri non troppo rinfusamente.

La celebre “ballerina” reinterpretata da Tiziana Giuliani, immaginando che l’autore dell’ostrakon, sicuramente affascinato dalla bellissima modella, le abbia chiesto di proporsi in pose differenti, come avviene oggi nello studio di un fotografo. Chissà che un giorno le sabbie non ci regalino qualcosa di simile…

“Museo chiuso”, un ossimoro che non vorrei mai leggere e che trovo fastidioso anche in occasione delle chiusure settimanali, necessarie per le attività di controllo e manutenzione delle collezioni esposte e che ogni museo giustamente deve osservare.

Il museo è un link diretto alla nostra memoria che è il deposito prezioso dov’è custodita la nostra identità. Sbaglieremmo se relegassimo il suo portato nelle nostre vite alle vicende che ebbero luogo ad Alessandria d’Egitto e al luogo sacro alle Muse, perché il museion/museo costituisce forse l’ultima evoluzione di un costante bisogno che accompagna l’uomo fin dagli albori del suo pensiero: il ricordo. Re-cordare, ritornare al cuore.

Sarcofago delle Muse, Museo del Louvre.

Quando le sue mani, docili esecutrici di un indomabile spirito creatore, cominceranno a modellare figure in forme arcaiche nell’argilla, nella pietra, su un osso di animale o lavorando un semplice pezzo di legno, sarà l’inizio di un percorso impetuoso e travolgente, impossibile da arginare, che troverà poi nella scrittura il suo naturale vettore verso l’eterno.

È la memoria. Contenitore di cultura in cui la vita si immerge e di cui ha bisogno anche la morte, da cui l’arte attinge e se ne fa portatrice tutt’altro che sana, rifugio ovattato in cui l’uomo volentieri indulge per ritrovare il senso dei propri passi.

Già nel XIII secolo a.C. uno dei numerosi figli di Ramesse II, Khaemwaset, sacerdote del tempio di Ptah a Menfi, capì l’importanza della memoria e la onorò restaurando antichi edifici sacri come, ad esempio, la piramide di re Unas a Saqqara, un sovrano che lo aveva preceduto di almeno un millennio, apponendovi un’iscrizione a ricordo del suo lavoro. L’unico in tutto l’antico Egitto? Così parrebbe, ma pensare che in una civiltà così fortemente caratterizzata e longeva come quella egizia vi sia stato un solo archeologo/restauratore ante litteram è inverosimile; è più facile credere che ciò sia dovuto alla singolare proprietà che le sabbie hanno di restituire, trattenere o nascondere per sempre agli occhi curiosi dell’archeologo le vestigia del passato.

La piramide di re Unas a Saqqara, colpita dall’intensa luce del sole nel tardo pomeriggio. Ph/ Paolo Bondielli

Ma nell’antico Egitto le attività della memoria erano un’occupazione fondante della civiltà egizia stessa. Gli scribi si formavano copiando testi sapienziali antichi e i sovrani facevano incidere su pietra gli elenchi dei loro predecessori, qualche volta citando anche i fatti salienti dei vari regni.

Ancor più sorprendente è quanto riportò alla luce l’archeologo Leonard Woolley nell’area di un tempio e di un palazzo di Ur appartenuto a Nabonide, ultimo re di Babilonia, non distante dalla celebre Ziggurat. È il cosiddetto Museo di Ennigaldi-Nanna, figlia del re, che intorno al 530 a.C. in qualità di “direttrice” e “curatrice” allestì decine di reperti in file ordinate in una precisa area del suo palazzo, descrivendoli su tavolette in argilla utilizzando tre diverse lingue.

A suggerire l’ipotesi museale è la collezione stessa, che presenta reperti afferenti ad epoche diverse. Ad esempio, tra gli altri, vi era una statua mutila del re Shulgi, che regnò per una cinquantina d’anni intorno al 2100 a.C., ma anche un kudurru, una pietra utilizzata tra il XVI e il XII secolo a.C. per registrare le concessioni di terra ai vassalli dei Cassiti nell’antica Babilonia. Non solo i reperti distano tra loro almeno mezzo millennio, ma distano molti secoli anche dall’epoca in cui visse la principessa e “direttrice” Ennigaldi-Nanna, che probabilmente assieme al padre – riconosciuto dagli archeologi come uomo attento ai fatti del passato – li ha recuperati grazie a mirate attività di scavo.

Un cilindro di argilla inscritto con una descrizione in tre lingue, come si usava nel museo di Ennigaldi per accompagnare un antico manufatto; queste sono le prime “etichette da museo” conosciute. http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Belshalti-nannar%27s_museum_label.jpg

Ma c’è una suggestione alla quale si indulge volentieri e di cui troviamo cenno nel volume II dell’Encyclopaedia Britannica. La principessa utilizzava questo spazio da lei appositamente allestito, per raccontare la storia dei luoghi in cui viveva proprio attraverso quei reperti che aveva raccolto e catalogato con cura, consapevole di essere parte di un processo culturale evolutivo avviato da secoli, di cui essa stessa era il risultato e al quale sapeva di dover cedere energie per assicurargli il futuro.

Khaemwaset ed Ennigaldi-Nanna. Cos’ha portato questi due principi così distanti tra loro nel tempo e nello spazio a ricercare le tracce materiali nel loro passato e a preservarle? Che cosa li accomuna?

Per rispondere a queste domande ci può venire in aiuto la mitologia dell’antica Grecia, con la quale ci sarà possibile dare un senso tangibile alle parole.

Mnemosine apparteneva al gruppo delle Titanidi – sorelle, mogli e compagne dei Titani – figlia di Urano e Gaia, indicata come la personificazione della memoria.

Secondo quanto ci narra il mito, Zeus e Mnemosine si amarono per nove notti e da questa unione nacquero le nove muse, rappresentanti supreme e patrone delle Arti, ma anche chiamate a sovrintendere il pensiero declinato in eloquenza, persuasione, saggezza, storia, matematica ed astronomia.

Il mito dunque codifica un pensiero già antico e tradotto dall’uomo in azioni concrete, affidandone la genesi a Zeus, re degli dei del Monte Olimpo e alla personificazione della memoria, Mnemosine, colei che – secondo Diodoro Siculo – diede un nome agli oggetti e ai concetti necessari per consentire il dialogo e la comprensione tra gli uomini. La memoria è dunque una cosa seria, madre delle arti e del pensiero, che ha dato concretezza alle cose chiamandole per nome, contribuendo fortemente a creare una koinè comunicativa che ha accolto e raccolto, coinvolto e formato l’intera umanità.

Mosaico con la rappresentazione di Mnemosine, madre delle nove muse. II sec. d.C. Museu Nacional Arqueològic de Tarragona.
https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Mosaico_de_Mnem%C3%B3sine_(37852061952).jpg

È il percorso della memoria che attraversa il pensiero e lo emancipa dalla nostalgia, ricollocando le immagini nel tempo e dando così origine alla storia, come già avevano intuito i due principi.

Un percorso che a me mi crea stupore! E mentre il lettore è rapito dal nostalgico ricordo della maestra che recita il celebre mantra grammaticale “a me mi…non si dice!” (e neppure si scrive), la memoria a questo punto si fa concretezza e prende la forma rassicurante e consueta di un museo. Perché è lì che l’uomo andrà a cercarsi ed è il luogo dove potrà ritrovarsi nella sua interezza. Ora più che mai.

Ma serve un museo capace di accogliere, che sappia guardare oltre la buona salute della collezione e che parli il linguaggio di tutti, consapevole – quindi – che conservazione e valorizzazione sono due aspetti del medesimo agire, assieme alla ricerca che è memoria, come ci ricorda Aristotele: “Chi rammemora fissa per illazione che prima ha veduto o udito o sperimentato qualcosa e ciò è, in sostanza, una specie di ricerca”.

Di più.

Serve un museo che sappia entrare nell’orizzonte visivo di chi transita lontano dal suo portone e non esclusivamente con chi quel portone lo ha sempre varcato e lo continuerà a varcare, al netto di qualsiasi riforma o normativa che ne possa modificarne l’assetto o la forma giuridica.

Le nuove sale storiche del Museo Egizio, dove il museo accoglie i visitatori raccontando di se stesso, come una storia nella storia. Ph/Paolo Bondielli

Il suo linguaggio universale si può inserire ed amalgamare nei nuovi contesti sociali delle città, dove ormai si parlano molte lingue, generando – al pari di Mnemosine – gli strumenti che consentono di capirci e quindi di conoscerci. E ben fece Ennigaldi-Nanna, che creando le prime targhette museali di cui si abbia traccia, ebbe cura di tradurle in tre lingue diverse. Come giusta è stata la scelta del Museo Egizio che si è dotato fin dalla sua riapertura di testi in arabo lungo tutto il percorso espositivo, perché è la lingua ufficiale dello Stato da cui l’intera collezione proviene, parlata anche dai più di otto milioni di cristiani copti che vi risiedono e da circa trenta mila cittadini torinesi, che fanno parte del tessuto sociale in cui il Museo Egizio è immerso.

Le vicende che stiamo vivendo in questi ultimi tempi ci mostrano come i confini, inutilmente difesi perché identificati erroneamente con l’identità culturale di un popolo, siano solo linee artificiali e artificiose che non rispecchiano più la realtà dei fatti. Linee che perdono contrasto e definizione proprio tra le sale dei musei, nel racconto dei reperti che vi sono custoditi e nella nuova visione che ormai li accomuna e che li vede protagonisti di un’inevitabile quanto auspicabile processo di inclusione, intesa proprio come la matematica la intende: relazione tra due insiemi quando ogni elemento di un insieme fa parte dell’altro.

Io Sono Benvenuto 2019

Oggi è la Giornata Mondiale del Rifugiato e la celebriamo ricordando i momenti più belli della serata Io Sono Benvenuto.#Museoditutti #RefugeeDay #WithRefugees#StepWithRefugees

Posted by Museo Egizio, Torino on Thursday, June 20, 2019

(Nel video girato presso il Museo Egizio, la Giornata del Rifugiato 2019. Quando un museo non fa solo il museo, è davvero un museo!)

E proprio in questo momento difficile, dove il presente è stravolto e il nostro futuro prossimo ci inquieta, i musei possono e devono diventare strumento utile per ritrovarci, campo neutro dove comporre un nuovo tessuto di relazioni con il quale riavvicinarci. La politica ne deve tenere conto e farsene carico, agevolando in tutti i modi questo processo.

Il museo custodisce la memoria e la memoria è una connessione tra due luoghi che nell’oggi ci paiono assenti, ma che è proprio nel presente che si strutturano e trovano concretezza: il passato e il futuro. La memoria è un cardine mobile che si muove ai ritmi del tempo caratterizzando il presente, fornendo al futuro quello straordinario materiale da costruzione che è l’esperienza, che è prerogativa del passato. Sarebbe dunque una vittoria se ci venisse da dire semplicemente andiamo al museo, come pensiero naturale e non perché attirati da una mostra o per motivi di studio.

Il Museo Egizio è pronto per affrontare questa sfida perché è così che è (ri)nato cinque anni fa, avendo chiaro fin da subito che un museo che fa solo il museo, non è un museo.

Christian Greco in un’intervista che mi rilasciò nel dicembre del 2014, a pochi mesi dal suo insediamento come direttore e con il museo in pieno fermento per la riapertura ormai prossima, già mi raccontava di inclusione sociale, di un museo che deve raggiungere coloro che non possono raggiungerlo. Mentre prendevano forma le collaborazioni internazionali e i progetti scientifici dedicati alla collezione interna, il Museo Egizio raggiungeva anche quei cittadini la cui mobilità era compromessa per i più svariati motivi, perché il museo è di tutti. Anche delle detenute della Casa Circondariale di Torino, a cui il Museo Egizio commissionò le sacche che contenevano i press kit che furono distribuiti ai giornalisti il giorno dell’inaugurazione.

Borsa di stoffa realizzata dalle detenute di un carcere femminile torinese. Ph/Paolo Bondielli

In un prossimo articolo descriverò più nel dettaglio queste attività del museo, che adesso avrebbero l’aspetto di un mero elenco di fatti più o meno conosciuti e sui quali invece vorrei articolare meglio il mio pensiero. Ma era importante farne cenno per dimostrare che è possibile guardare oltre quel portone, consapevoli che “ogni elemento di un insieme fa parte dell’altro”.

È necessario. Non facciamoci mai convincere del contrario.

Perché non so voi, ma io mi sento un po’ come Maga Magò nella sfida di magia con Merlino. L’esilarante fattucchiera era certa che la potenza e la forza di grandi draghi potessero avere la meglio sullo quello scontroso e vecchio barbuto di Merlino. In effetti è un pensiero rassicurante che la “forza sia con noi”. Ma lui si è difeso in modo inaspettato, con qualcosa di talmente piccolo da non poter essere neppure preso a schiaffi, insultato o aiutato a casa sua. E le certezze di Maga Magò hanno cominciato a vacillare, costretta in casa da qualcosa che era sfuggito al suo controllo. Mi ricorda qualcosa.

È la presunzione dell’onnipotenza, l’obnubilamento della velocità o – forse – la sindrome del pensiero monodirezionale, generalmente precostituito, che non ammette punti di vista che non gli siano funzionali.

E non ci resta che citare Frida Khalo come augurio a tutti noi, ai nostri luoghi della cultura e a tutti coloro che ce li hanno resi indispensabili senza che ce ne accorgessimo: “Non come chi vince sempre, ma come chi non si arrende mai”.

Advertisement
Articolo precedenteJaḫdun-Lim, re di Mari
Prossimo articolo“Herculaneum 3D SCAN” accelera la rivoluzione digitale di tutte le attività del Parco
Paolo Bondielli

Storico, studioso della Civiltà Egizia e del Vicino Oriente Antico da molti anni. Durante le sue ricerche ha realizzato una notevole biblioteca personale, che ha messo a disposizione di appassionati, studiosi e studenti. E’ autore e coautore di saggi storici e per Ananke ha pubblicato “Tutankhamon. Immagini e Testi dall’Ultima Dimora”; “La Stele di Rosetta e il Decreto di Menfi”; “Ramesse II e gli Hittiti. La Battaglia di Qadesh, il Trattato di pace e i matrimoni interdinastici”.

E’ socio fondatore e membro del Consiglio di Amministrazione dell’Associazione Egittologia.net. Ha ideato e dirige in qualità di Direttore Editoriale, il magazine online “MA – MediterraneoAntico”, che raccoglie articoli sull’antico Egitto e sull’archeologia del Mediterraneo. Ha ideato e dirige un progetto che prevede la pubblicazione integrale di alcuni templi dell’antico Egitto. Attualmente, dopo aver effettuato rilevazioni in loco, sta lavorando a una pubblicazione relativa Tempio di Dendera.

E’ membro effettivo del “Min Project”, lo scavo della Missione Archeologica Canario-Toscana presso la Valle dei Nobili a Sheik abd el-Gurna, West Bank, Luxor. Compie regolarmente viaggi in Egitto, sia per svolgere ricerche personali, sia per accompagnare gruppi di persone interessate a tour archeologici, che prevedono la visita di siti di grande interesse storico, ma generalmente trascurati dai grandi tour operator. Svolge regolarmente attività di divulgazione presso circoli culturali e scuole di ogni ordine e grado, proponendo conferenze arricchite da un corposo materiale fotografico, frutto di un’intensa attività di fotografo che si è svolta in Egitto e presso i maggiori musei d’Europa.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here