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antichi. Quindi, gli Egizi non erano perennemente incupiti in attesa di stirare le cuoia, ma mangiavano, si ubria-

cavano, cantavano, facevano l’amore come tutti gli altri. Dopo queste considerazioni, non sembrerebbe etico

esporre al pubblico i corpi di persone distolte dal loro riposo eterno e trasformate in curiosi oggetti da ammi-

rare. Ma è proprio qui che si inserisce il ruolo del professionista. Archeologi, antropologi, restauratori, curatori

di musei devono restituire dignità a questi uomini e donne non trattandoli come gli altri reperti. L’oggetto deve

tornare soggetto. Non basta collocare la mummia in vetrina accompagnandola con una semplice targhetta

che ne specifichi la datazione, ma va ricreato tutto il contesto cercando di estrapolare ogni dato possibile che

possa farci conoscere la vita e non solo la morte. In realtà, questo discorso andrebbe applicato su ogni singo-

lo vaso, statua o amuleto, ma, a maggior ragione, io riserverei una particolare cura per i nostri avi. In questo ci

aiuta la tecnologia. Senza essere più costretti a togliere le bende, raggi X, TAC e altri metodi non invasivi oggi

permettono di capire cosa mangiasse il “paziente”, di che tipo di attività lavorativa si occupasse, di che mali

soffrisse e la causa del decesso. Tali informazioni non sono solo utili nel caso particolare ma, messe tutte in-

sieme, possono anche riscrivere i libri di storia.

Infine, bisogna ricordare che, secondo la religione egizia, l’in-

tegrità del corpo era fondamentale per sperare in una vita

ultraterrena, tanto che esisteva un’infinità di formule funera-

rie per scongiurare problemi al cadavere. Quindi, in un certo

senso, la cura dei moderni studiosi nel conservare le salme

potrebbe far comodo anche agli spiriti che si trovano nella

Duat. Così, a mio parere, mostre come quella del British, in-

centrate sulle storie più che sui reperti, non ledono la dignità

dei protagonisti e, anzi, possono e devono “educare” il pubbli-

co. Certo, ci sarà sempre chi andrà a fotografare la mummia

con in testa la maledizione di Tutankhamon o la melodia di

John Williams, ma tutti gli altri potranno considerare con più

rispetto persone che una volta vivevano e che, in questo

modo, potranno ottenere l’immortalità, almeno nella memo-

ria, tanto agognata.

Immagine della TAC su una mummia del Medelhavsmuseet di Stoccolma / fonte: Interactive Institute Swedish ICT -

www.tii.se/projects

Mattia

Mancini

Laureato in “Scienze archeologiche” pres-

so “La Sapienza” di Roma, ha successiva-

mente conseguito la laurea specialistica

in “Archeologia” (curriculum “Egitto e Vici-

no Oriente”) presso l’Università di Pisa.

Ha partecipato a varie missioni archeolo-

giche in Italia ed Egitto. Inoltre, è il creato-

re del blog di egittologia djedmedu.

wordpress.come scrive anche per arche-

oblog.associazionevolo.it.

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