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le fasi di allestimento del Museo Egizio era

stata collocata nel cortile interno, all’aperto.

Allo scopo di dargli una protezione, il prezioso

reperto fu ricoperto di paglia e Champollion

prese spunto da questa situazione di “disagio”

e scrisse il componimento che segue, a nome

di Osymandias.

Torino, 22 dicembre 1824

Sire,

Un vecchio proverbio egiziano dice: “Pietra che

ruzzola non raccoglie muschio”. Ne ho fatto l’espe-

rienza, triste e molto crudele.

Quando su proposta di M. Drovetti, che mi vantava

la cortesia e la civiltà dell’Europa, acconsentii a la-

sciare Tebe, la mia cara patria, per vedere i paesi

dell’Occidente, dovetti (poiché il viaggio non po-

teva essere fatto in altro modo) accettare di essere

messo in una nave in maniera molto scomoda e

molto poco conveniente sia al mio rango sia al mio

illustre casato.

Una sola speranza addolciva la noia della traversata,

quella degli onori che mi spettavano senza dubbi, in

mezzo a popoli che devono, in massima parte, i lumi

di cui si vantano all’antica nazione che ho governato

a lungo e con tanta gloria.

Sopportai dunque con pazienza e il mal di mare e i

continui disgusti che mi causavano i miei compagni

di viaggio, i quali fingevano d’ignorare con quale

personaggio avevano l’onore di viaggiare.

Arrivo a Livorno, e mi si alloggia in una specie di

magazzino. Mi si lascia laggiù molti mesi, senza nep-

pure domandarsi se il locale poteva o no conve-

nirmi.

Cento volte avrei perso la pazienza e tentato qualche

colpo impetuoso – perché nella mia qualità di con-

quistatore, io sono molto vivace, benché posato in

apparenza – se i miei compatrioti Thutmosi e Amen-

hotep, personaggi assai flemmatici di natura e rin-

chiusi nella mia stessa corte, non mi avessero

convinto a starmene in pace, aspettando gli avveni-

menti. Quanto a Sesostri, che ci trovai egualmente,

il povero ragazzo era così malato e così spezzato dal

viaggio che aveva una ragione doppia di non occu-

parsi che di sé.

Grazie a questi buoni compagni, non sono morto di

noia, perché Thutomsi mi raccontava le vecchie sto-

rie del suo tempo, e Amenhotep che, sotto il nome

di Memnon, si è fatto una reputazione molto buona

come musicista, mi cantava di quando in quando una

delle graziose arie che, nella piana di Tebe, facevano

un tempo correre ai suoi piedi i Greci e i Romani.

Ma Sua Maestà può figurarsi quale fu il mio dolore

quando restai solo e vidi partire successivamente

per la capitale non soltanto tutti i faraoni miei amici,

ma persino tre o quattro piccoli Tifoni, che avreb-

bero almeno potuto sollevare la mia solitudine con

la loro faccia e il loro carattere grottesco, benché in

fondo siano gentuccia molto modesta e persone di

assai cattiva compagnia.

Restai pietrificato da questo affronto: nessun la-

mento mi uscì di bocca, ma, immobile e con l’occhio

fisso, mi divoravo il cuore. Come si diceva una volta

nel mio paese.

In breve, non mi mossi più fino al giorno in cui

m’imbarcarono per Genova. Laggiù dovetti fare an-

PETIZIONE DEL FARAONE OSYMANDIAS A

S.M. IL RE DI SARDEGNA

e g i t t o i n p i l l o l e