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un nido di vipere e vedrà poi tornerà qui tra noi.

L’Italia effettivamente viene vista come un Paese

molto difficile.

E lei lo ha trovato tale?

No, non l’ho trovato tale. Torino è anche un’isola

felice, quell’Italia che funziona. Tra l’altro ho la for-

tuna di lavorare a fianco e di far squadra con una

presidente (Evelina Christillin, che è stata pro-

tagonista di una nostra intervista nel corso del

2014, ndr) che della pragmaticità, della fattività e

della correttezza ha fatto il suo simbolo di vita,

dalle Olimpiadi in poi. Lavorare con lei è un pia-

cere e mi sono trovato in un ambiente per cui la-

vorativamente mi sembra di essere a Stoccolma.

Quello che voglio cercare di fare è di vincere del-

le possibili resistenze e diffidenze che ci possono

essere nel far capire che se io voglio fare sistema,

lo voglio fare davvero con tutti, senza escludere

nessuno, perché penso che tutti insieme si possa

fare di più e meglio.

Quando penso al Museo Egizio di Torino l’immagi-

ne che mi viene davanti agli occhi è l’ostrakon della

danzatrice, da sempre. Esiste per lei un reperto che le

provoca una cosa simile? Che preferisce tra gli altri?

Ecco, l’ostrakon della ballerina avrei voluto che

fosse stato il simbolo di questo museo.

Ne avevo parlato anche con il ministro France-

schini, perché è tutto ciò che non ci si aspetta

dall’Egitto. Sembra un pezzo quasi più classico,

con questa ballerina assolutamente in prospet-

tiva con le spalle rese di profilo: tutto quello che

ci aspettiamo che l’arte egizia non sia. Poi le cose

sono andate diversamente. No, scegliere un pez-

zo preferito per me è impossibile, ho talmente

tanti tesori qua dentro. Parlerei piuttosto di con-

testi. La tomba di Kha è uno di questi, ma come la

tomba di ignoti, la tomba di Ity, il Canone Regio, il

Papiro dello Sciopero, il Papiro Erotico. Sono dav-

vero troppi per poterne scegliere uno.

Un suo sogno?

Il mio sogno è che questo museo diventi il secon-

do museo al mondo. Il mio sogno è che chiun-

que studi egittologia nel mondo passi di questo

museo e non succeda come avviene oggi, che

neppure i grandi studiosi passano da Torino. Che

torni ad avere senso la frase che ebbe a pronun-

ciare Champollion: la via per Tebe e Menfi passa

per Torino. A quel punto direi davvero che la mia

direzione ha portato dei risultati importanti.

Avrei ancora tantissime cose da chiedere a Christian

Greco e il clima disteso e colloquiale dell’intervista lo

avrebbe di certo permesso. Ma è il tempo ad esse-

re tiranno e veniamo giustamente interrotti da un

membro dello staff. Mi avevano chiesto di concen-

trare l’intervista in una quindicina di minuti perché

il direttore era atteso nelle sale per la movimenta-

zione di centinaia di reperti, ma alla fine siamo rima-

sti chiusi nel suo ufficio per più di un’ora, che è sci-

volata via con una velocità sorprendente. Federica

Facchetti ci scatta velocemente la foto che mi ritrae

accanto al giovane direttore, qualche convenevole e

una bella stretta di mano per salutarci. Si, non che

fosse necessario, ma mi ha convinto. Il Museo Egizio

di Torino è in buonamani. Esco dall’ufficio. Un rapido

cenno di saluto con il dottor Moiso e Federica che

mi accompagna verso l’uscita. Incontro persone, per

lo più giovani egittologi che in parte riconosco per

le foto su facebook. Sorrido tra me per questo fatto

curioso mentre pigio il tasto di chiamata dell’ascen-

sore. Solo in quel momento noto, di fianco alla porta

d’ingresso, un cartello che informa il visitatore che lo

spazio occupato adesso dagli uffici della direzione

diventerà una caffetteria. Rifaccio lo stesso percor-

so a ritroso e non appena arrivo in prossimità del

portone d’ingresso, chiuso, un pensiero come un

lampo mi attraversa la testa: l’ombrello!

Non so quando né dove ho perso i contatti con lui,

ma fuori ha smesso di piovere e poco importa.

Dal corredo funerario di Kha / ph Paolo Bondielli