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femminista islamica. L’Islam non è una religione “dalla parte degli uomi-

ni”, né discriminatoria nei confronti delle donne, secondo la studiosa. Il

problema dei diritti negati, soprattutto quelli femminili, nasce da deter-

minate condizioni storiche e culturali. La religione islamica, dunque, così

come il Corano, non propugnano certo la disuguaglianza o la supremazia

di pochi su molti, o degli uomini sulle donne, al contrario. Il Libro Sacro

non dovrebbe, di conseguenza, essere interpretato in maniera rigida,

fissa, statica. La parola è dinamica poiché può avere diversi significati,

diverse sfumature interpretative che derivano dal contesto storico e so-

ciale in cui essa viene pronunciata o scritta. Per questo motivo il Corano

va letto alla luce dell’epoca in cui è stato concepito.

A tal proposito Riffat Hassan pone l’accento su un punto importantissi-

mo e ancora oggi dibattuto: l’inferiorità della donna nei confronti dell’uo-

mo, la diversità dei generi che, quasi automaticamente, sfocia nella di-

sparità dei diritti fondamentali, assegnando alla parte maschile del

mondo la supremazia su ogni cosa.

Il racconto della nascita dell’umanità, nel Corano, non reca alcun indizio,

nascosto o palese, di tale superiorità. Uomini e donne sono stati creati

da Allah, possiedono il soffio vitale e, in qualità di credenti, sono uguali

innanzi a Lui. La diversità biologica, spiega la Hassan, non è e non può

divenire il pretesto per giustificare la tesi dell’inferiorità femminile e nep-

pure la presuppone; tali differenze fisiche, infatti, sono ricollegabili ai ruoli

che l’uomo e la donna assumono nella procreazione e, successivamente,

nel percorso di crescita dei figli. Il padre deve sostenere la famiglia e non

solo economicamente; la madre mette al mondo e alleva i figli, secondo

il Corano, ma in questa suddivisione dei compiti non si può evincere al-

cuna superiorità di un genitore sull’altro. Riffat Hassan spiega, invece, che

entrambi i coniugi hanno ruoli essenziali nella costruzione del nucleo

familiare e, di conseguenza, della società stessa. Il fatto che la donna

partorisca e accudisca dei figli e l’uomo provveda a loro non lo pone au-

tomaticamente su un piedistallo e non gli dà il diritto di decidere della

vita e dei diritti delle donne. Tale ripartizioni dei ruoli non va intesa in

maniera monolitica e immutabile. Parlando di procreazione la Hassan si

sofferma su altri due temi scottanti: l’aborto e la contraccezione.

Nel Corano non si fa esplicito riferimento alla contraccezione, però la

teologa, dopo un attento lavoro sulle fonti religiose islamiche, è arrivata

a sostenere che l’Islam non vieti il controllo delle nascite e che, anzi, que-

sto rappresenti un diritto della donna il cui corpo non può essere consi-

derato una proprietà maschile.

Per tali ragioni sia l’aborto che la contraccezione sono permessi dalla

religione, ma sulla questione dell’interruzione di gravidanza c’è qualcosa

in più da dire: i dotti musulmani non sono unanimemente d’accordo sui

limiti temporali in cui sarebbe lecito intervenire per porre fine alla gesta-

zione. Tutto ruota intorno al momento in cui avverrebbe l’infusione dell’a-

nima nel feto. Secondo Riffat Hassan è possibile praticare l’aborto entro

e non oltre i primi centoventi giorni di gravidanza, poiché la studiosa ri-

tiene che in questo periodo l’anima non abiti ancora il feto. Parlare di

aborto nel mondo musulmano non è così facile, soprattutto tenendo

conto del fatto che le legislazioni delle diverse nazioni arabe e islamiche

in merito non sono affatto permissive, eccezion fatta per i casi in cui l’in-

columità della madre è a rischio.

Non solo: il controllo delle nascite è un argomento che va a toccare la

colonna portante della religione musulmana, ovvero la famiglia e il matri-

monio. Non si concepisce la nascita della prima se non all’interno del