a cura di Annamaria Zizza

Da sempre il silenzio, espressione di indicibilità, è stato correlato alla sfera religiosa: “dire”, infatti, svelare gli arcani, avrebbe significato sconvolgere l’assetto del mondo socio-politico antico, fondato anche sui Mysteria, accessibili solo agli eletti e agli “specialisti” del sacro.

Ostrakon dedicato da Amonkhau alla dea Mertseger “Colei che ama il silenzio”. Da Deir El Medina, collezione del Museo Egizio di Torino.

Così è accaduto nel mondo egizio, in quello greco e in quello romano, in cui il pantheon delle divinità presentava una figura singolare per ognuna di queste civiltà: Mertseger, Harpechrat, Arpocrate e Tacita Muta.

Mertseger era la dea-cobra, talora assimilitata ad Hathor, protettrice della necropoli di Tebe: il suo nome significava, infatti, “colei che ama il silenzio” o “colei che ama colui che produce silenzio” (Osiride); Harpechrat era la raffigurazione di Horus fanciullo  (secondo altri, ne era il fratello) e, come tale,  veniva rappresentato con la tipica treccia sul capo raso caratteristica dell’età infantile e un dito in bocca, in contrapposizione al dio Horus,

Arpocrate. Musei Capitolini. Età adrianea (117-138 d.C)

lo sparviero, che, in età giovanile ma più matura, dallo storico greco Erodoto fu assimilato ad Apollo per il carattere solare del suo culto e assunto nel pantheon greco, sebbene con alcune varianti: l’originario dito in bocca del dio ancora infante egizio viene trasformato in un dito che impone il silenzio (in coerente legame con i misteri) e l’aspetto fisico si avvicina di molto a quello di Eros, per le rotondità del corpo e le ali che spesso presenta. Il nome, però, è di palese derivazione egizia: Arpocrate.

A Roma due erano le dee che conservavano tali caratteristiche: Tacita Muta e Angerona, sebbene non si possa parlare di una identificazione tra le due. Se Angerona, infatti, contiene già nel suo nome (parlante come quello di Tacita Muta) l’idea di angoscia e di “angina”, poiché era la dea protettrice dei malati di angina e delle zone limitrofe alla gola, Tacita Muta è assurta nel pantheon romano già in epoca arcaica a divinità rappresentata col dito sulle labbra ad intimare il silenzio, gesto che peraltro condivide con Angerona, sebbene questa non sia costretta al silenzio, a differenza dell’altra. Ambedue le dee, inoltre, presiedono ad organi fonatori (la gola, la bocca e la lingua), ma Tacita Muta riveste il significato di “far tacere le malelingue”

Il mito di Tacita Muta ci viene raccontato da Ovidio, il grande poeta latino della prima età imperiale, nei “Fasti”, poema eziologico rimasto incompiuto verosimilmente per la sua relegatio a Tomi, e dove il letterato di Sulmona, sul modello degli “Aitia” di Callimaco, descrisse in distici elegiaci l’origine delle festività latine: è quando si sofferma a parlare delle festività di febbraio che Ovidio cita i Parentalia, feste private in onore dei parenti (genitori) defunti che si celebravano dalle Idi di febbraio (13 febbraio) al 21 dello stesso mese. Il 21 febbraio cadeva, secondo il calendario romano, la festa dei morti (Feralia) durante la quale era credenza che i morti tornassero a circolare liberamente tra i vivi. A tal proposito Ovidio racconta il rito propiziatorio dedicato alla dea Tacita Muta, il cui culto era stato inaugurato dal secondo re di Roma, Numa Pompilio, che riteneva utile l’istituzione di una tale divinità per fornire fondamenti religiosi e sociali alla nascente monarchia. Il rito prevedeva che una vecchia circondata da fanciulle ponesse tre grani di incenso sotto alla porta, legasse fili ad un fuso scuro e si mettesse in bocca sette fave nere. Avrebbe dovuto arrostire in seguito la testa di un pesce, la menola (il pesce è un animale evidentemente muto) cosparso di pece e cucito con un amo di rame, spargendovi sopra del vino. Il residuo liquido avrebbe dovuto berlo con le fanciulle che le facevano corona.

Tacita Muta

E’ evidente la matrice magica del numero 3 e del numero 7, come anche l’evidente simbologia del fuso, che rimanda alle Parche greche, e del rame, materiale assimilato all’oro che si riteneva avesse poteri terapeutici e che simbolizzasse Venere, la dea dell’amore. Quanto alle fave, nel mondo antico si reputava che, per via delle lunghe radci che affondavano nel terreno, fungessero da tramite tra il mondo dei vivi e quello dei morti e che anzi le anime dei defunti albergassero nei loro baccelli. La credenza, tra l’altro, si è mantenuta ancor oggi: le fave dei morti, originariamente primaverili (la primavera è la stagione della rinascita), sono state col tempo consumate ad Ognissanti, in coincidenza con la commemorazione dei defunti: si tratta di biscotti dalla forma di fava, appunto, preparati con mandorle dolci triturate nel mortaio con lo zucchero. Anche le mandorle da sempre rappresentano la nascita e la resurrezione; il mandorlo è il primo albero a sbocciare in primavera e simboleggia il perpetuarsi della natura dopo la “morte” invernale. E’ anche simbolo di fecondità, delimita e separa, col suo spazio chiuso, il mondo sacro da quelo profano, come si evince dalle nicchie a forma di mandorla delle chiese medioevali contenenti personaggi sacri.

Il mito raccontato da Ovidio con la consueta facoltà affabulatoria ci presenta la giovane naiade Lara (o Lala, dal greco “parlare, chiacchierare”) che, avendo spiato gli amori di Zeus e della propria sorella Giuturna, lo rivela a Giunone. Giove, irritato, le taglia la lingua e la manda negli Inferi. Suo accompagnatore è naturalmente Mercurio (nella veste di psicopompo) che si innamorerà di lei e che da lei avrà  due gemelli , i Lares compitales, ai quali, nella religione dell’antica Roma, era affidato il compito di vigilare sulle strade della città e in special modo sui crocicchi. Come dea del silenzio, Lala assunse così il nome di Tacita Muta o Acca, proprio perché la lettera h è muta.

Un’edicola destinata a larario in una domus di Ercolano.

La festività dei Lares Compitales (assieme ai Ludi saeculares) venne poi ripristinata da Augusto ed inserita nel suo programma di restauratio formale delle antiche tradizioni che avevano reso grande Roma, nell’intento di eternarne la potenza e la grandezza. Per questo Orazio scrisse il “Carmen Saeculare”, perchè venisse cantato nel 17 a.C. durante i Ludi Saeculares. Nel  bellissimo carmen “Exegi monumentum” (III, 30), il poeta, di contro allo scorrere inesorabile del Tempo, fa stagliare l’immobilità di una potenza che né le piogge corrosive né la caducità della condizione umana potranno mai scalfire. E proprio a questo punto che il poeta di Venosa dirà:

Non omnis moriar multaque pars mei

vìtabit Libitinam : usque ego postera

crescam laude recens, dum Capitolium

scandet cum tacita virgine pontifex

 

Non morirò del tutto e gran parte di me

eviterà la morte: continuamente io crescerò

fresco di lode presso i posteri, finché

il pontefice salirà al Campidoglio con la silenziosa vergine.

Ancora una volta la tacita virgo, la vergine vestale, rimanda all’idea di indicibilità propria della sfera religiosa, e così la parola “pontifex”, che rimanda idealmente all’antica magistratura dei “costruttori di ponti”, formalmente a quella degli organizzatori dei riti sacri, e metaforicamente a se stesso, “costruttore di un ponte” tra  passato e presente, tra vivi e morti.

Orazio, poeta della conservazione valoriale del mos maiorum, ci fornisce in un’altra ode, la 37 del I libro, la descrizione di una Cleopatra folle di ambizione e ubriaca come il suo amante, Marco Antonio:

Nunc est bibendum, nunc pede libero
pulsanda tellus, nunc Saliaribus
ornare pulvinar deorum
tempus erat dapibus, sodales.

Antehac nefas depromere Caecubum
cellis avitis, dum Capitolio
regina dementis ruinas
funus et imperio parabat

contaminato cum grege turpium
morbo virorum, quidlibet impotens
sperare fortunaque dulci
ebria. Sed minuit furorem

vix una sospes navis ab ignibus,
mentemque lymphatam Mareotico
redegit in veros timores
Caesar, ab Italia volantem

remis adurgens, accipiter velut
mollis columbas aut leporem citus
venator in campis niualis
Haemoniae, daret ut catenis

fatale monstrum…

 

Gianbattista Tiepolo: il Banchetto di Antonio e Cleopatra. 1743-44. National Gallery of Victoria, Melbourne.

Adesso bisogna bere, bisogna battere

la terra con libero piede, adesso è il momento

di ornare gli altari divini

con banchetti degni dei Salii.

Non era lecito prima togliere il Cecubo

 dalle cantine dei padri, quando la regina

 meditava al Campidoglio una folle

 rovina e all’impero la fine

 con il suo gregge di uomini

 svergognati e sfregiati,

 senza limite nelle speranze,

 ubriaca di dolce fortuna. Ma la sua pazzia

 la guarì l’unica nave scampata a stento alle fiamme,

 e la mente sconvolta dal Mareotico

 Cesare la riportò alla terribile

 realtà, incalzandola nella sua fuga

 dall’Italia coi remi, come lo sparviero

 insegue le timide colombe o il cacciatore

 una lepre sui campi nevosi

della Tessaglia, per mettere il mostro fatale

 in catene.

Eppure, nonostante l’ebrietà tanto sottolineata, Orazio non sa nascondere l’ammirazione per il coraggio della regina d’Egitto.

L’idea di rafforzare la religio tradizionale da parte di Augusto era naturalmente intesa a fornire l’idea di ripristino, del tutto formale, in realtà, delle istituzioni repubblicane, ma il culto di Tacita Muta, al di là della valenza religiosa da cui sembra pervaso, riveste senza dubbio anche un altro significato: il passaggio dal maschile egizio e greco al femminile della divinità romana è esemplificativo di una civiltà, quella arcaica dei primi secoli della res pubblica, in cui l’idea che la donna potesse parlare e partecipare alla vita politica era aborrita e dichiarata inaccettabile perché pericolosa per gli equilibri dello Stato.  Un uso molto diffuso nelle famiglie romane, peraltro già descritto nelle opere dell’antropologa del mondo antico Eva Cantarella, era quello di verificare se le donne di casa bevessero il vino: il pater familias, di ritorno a casa, dava un bacio profondo a tutte le donne presenti e, se percepiva anche solo un vago sentore di vino, le condannava alla pena di morte, senza pagare il fio della sua colpa. Uno dei casi più noti è quello del cavaliere  Ignazio Mecennio che, avendo visto la moglie bere vino, la uccise a bastonate (“fusti percussam interemit”) e si guadagnò col suo uxoricidio il commento benevolo dello storico Valerio Massimo, che ne apprezzò la coerenza.

Se in realtà il gusto ricercato dal pater familias era quello del temetum , il vino utilizzato in occasione dei riti divinatori (dunque sacri), la condanna delle donne troppo ciarliere perché amanti del vino si allargò a tutte le varietà possibili: le donne che bevessero vino, infatti, erano considerate capaci delle peggiori nefandezze, di tradire il marito, ad esempio. O di raccontare in pubblico segreti inconfessabili o cose disdicevoli.

D’altra parte anche il nome vero della città di Roma era avvolto dal più completo riserbo: poiché avrebbe rivelato il nome del suo dio protettore, indebolendola in caso di attacchi esterni, chiunque lo rivelasse veniva punito con l’esilio o con la morte.

Della considerazione di cui le donne (anche le patrizie) godevano nella prima età repubblicana parla Catone il  Censore che, in occasione del dibattito sulla lex Oppia (la lex sumptuaria, cioè intesa a governare gli eccessi nel possesso e nell’ostentazione di beni di lusso), ebbe a dire:

Questo non è che uno, e dei minori, tra i freni che le donne mal sopportano di vedersi imporre dalle usanze o dalle leggi. Ciò che desiderano è la libertà o, se vogliamo chiamare le cose con il loro nome, la licenza in tutti i campi. Che cosa non tenteranno, se otterranno questo?”  (Tito Livio, Libri ab urbe condita)

Ortensia

Parole al vento: la lex Oppia fu abrogata. Le donne avevano vinto.  E più tardi Ortensia, la figlia del grande oratore avversario di Cicerone, Quinto Ortensio Ortalo, osò tenere un’arringa in pubblico guadagnandosi  l’apprezzamento di Quintiliano che, in età flavia, ne stimò positivamente le qualità. Nel 42 a.C. i triumviri, infatti, avevano imposto alle matrone romane una tassa per le spese militari: Ortensia non avrebbe potuto parlare nel foro (così come bere vino), ma andò e difese se stessa e le altre matrone, dicendo:

“Perché mai le donne dovrebbero pagare le tasse, visto che sono escluse dalla magistratura, dai pubblici uffici, dal comando e dalla res publica?”

I triumviri accolsero in parte la richiesta di Ortensia, ma questo fu un passo importante per l’emancipazione delle donne.

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Annamaria Zizza

Mi sono abilitata in Italiano e Latino e in Storia dell’Arte, sono passata di ruolo per l’insegnamento dell’Italiano e del latino nei Licei nell’anno 2000/2001.

Sono attualmente in servizio dal 2007/2008 al Liceo Classico “Gulli e Pennisi” di Acireale CT, dove ricopro il ruolo di docente a tempo indeterminato nel triennio del corso C.

Ho frequentato con esito positivo i seguenti corsi di aggiornamento/formazione:

– Didattica della lingua italiana;

– Tecnologie informatiche applicato al PNI e al Brocca;

– Valutazione scolastica;

– Valutazione e programmazione scolastica;

– Sicurezza nelle scuole;

– Didattica della letteratura italiana;

– Didattica della letteratura latina;

– rogramma di sviluppo delle tecnologie didattiche;

– Didattica breve nell’insegnamento del latino;

– Comunicazione

– Per una didattica della lettura e della narrazione;

– Autori, collane, libri, progetti editoriali: valorizzare la scuola attraverso la lettura;

– La dislessia

Ho tenuto in qualità di esperto due corsi PON sulle abilità di base per l’Italiano e uno sui connotati profetici nella Comedìa dantesca; ho svolto il ruolo di tutor in altri corsi PON ministeriali.

Sono stata per tre anni funzione strumentale nell’area “Supporto ai docenti”, direttrice di laboratorio multimediale, catalogatrice Dewey nella biblioteca scolastica, bibliotecaria, RSU, coordinatrice e segretaria di Consiglio di classe con frequenza annuale. Ho elaborato e tenuto il percorso di ricerca-azione “Sopravvivere alla vita: istruzioni per l’uso” nell’ambito della DLC.

Ho partecipato a svariate iniziative culturali come relatrice: dalla tavola rotonda organizzata dal Comune di Acireale sul saggio della prof.ssa Ferraloro inerente il romanzo di Tomasi di Lampedusa “Il gattopardo”, a conferenze di argomento letterario presso scuole, al progetto “Dante nelle chiese di Acireale”, organizzato dal vescovado (con relativa Lectura Dantis), al festival Naxoslegge con un’altra lectura Dantis e a presentazioni di libri.

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